Si ringrazia Franco
Sciardelli per la aver cortesemente autorizzato la pubblicazione del testo.
LETTERA APERTA
A UN PROFESORE
IN GRAFICHE VARIE
E LINGUAGGI ANNESSI
© franco sciardelli, via giannone, 6. milano
La mostra, cui è legato il saggio del Prof. Paolo Bellini al quale
si riferisce la presente lettera, è stata presentata ad Acqui Terme nel mese di
aprile 1993 e a Ovada nel settembre dello stesso anno.
Ho letto con attenzione e apprensione il tuo saggio introduttivo
al catalogo della prima Biennale Nazionale dell'Incisione promossa dal Rotary
Club di Acqui Terme-Ovada. Mi aveva già incuriosito, nell'annunciò,
l'articolazione della rassegna in due settori: una per invito, riservato alle
incisioni eseguite con «tecniche tradizionali» e «rispettose delle regole
dell'originalità»; l'altro, a libera partecipazione, riservato alle opere
eseguite con «tecniche sperimentali».
Dei due settori, quest'ultimo costituiva la vera novità della
rassegna anche se insospettivano il modo un po’ oscuro di spiegare il senso
della sperimentazione e la mancata richiesta del rispetto dell'originalità. A
fare chiarezza ecco in catalogo la tua spiegazione:
Che cosa mai si celi dietro codesta nomenclatura è abbastanza
comprensibile: da un lato si pongono quegli artisti che operano nel rispetto
del linguaggio grafico (che qui per comodità d'intendimenti s'è voluto chiamare
«tradizionale»), e dall'altro invece quelli che dalla fedeltà a questo
linguaggio ritengono di poter prescindere. E certo, se lo fanno, significa che
possono. A costoro - per la prima volta, per quel che ne so io - si attribuisce
una patente di legittimità, con pari dignità dei loro colleghi «tradizionali»,
senza volerne fare una questione pedante di originalità o meno e senza
premettere che gli uni siano meglio degli altri. In altre parole questa
Biennale prende atto che nell'attuale mondo della grafica esistono incisori
rispettosi del linguaggio grafico e altri che non lo sono, che è come voler
dire che ad entrambi va riconosciuto il diritto di esprimersi nel modo che
vogliono e che è stupido da parte degli incisori «tradizionali» negare agli
altri ti diritto di esistere. Ma nel contempo si afferma che è altrettanto
sciocco, anzi puerile e penosamente intriso dì interessi commerciali, tentare
da parte di questi altri di ricevere attestati di originalità e di rispetto
alla tradizione.
Ho trascritto per intero il brano sperando che il leggerti con
altra calligrafia ti permetta di cogliere l'incongruenza delle tue
affermazioni. Siamo all'applicazione, con variazioni e messe a punto, della
teoria delle «due grafiche» da te enunciata nel 1988: le stampe d'arte non si
distinguono più in originali e non, ma in «grafica incisione» e «grafica
pittura»: categorie che per l'occasione sono ribattezzale tradizionale e
sperimentale.
Ti proponevi allora di mettere fine «alle polemiche fastidiose
quanto inutili sull'originalità della stampa» e ora di chiarire una volta per
tutte che «il tradimento non è stato consumato sulle sue regole, ma soprattutto
sull'abbandono del linguaggio grafico, complice da un lato la pittura e
dall'altro il profitto». Anzi, la pittura sarebbe stata ben più che complice
avendo sempre «prevaricato nei confronti della più debole tentando di
condizionarla e di porla al suo servizio». Solo la superiore esigenza di fare
giustizia di tradimenti e prevaricazioni può averti spinto ad assegnare patemi
di legittimità e riconoscimenti di dignità a qualcuno o qualcosa, pretesa
comunque inaccettabile.
Quella che consideri una polemica è in realtà un dibattito che non
riguarda il concetto di originalità, che è per le stampe lo stesso che vale per
ogni altra espressione d'arte, bensì il riconoscimento che, nel rispetto di
tale concetto, ogni nuova tecnica è valida e dimostra la vitalità e l'attualità
dell'antica arte di fare matrici a fine d'espressione artistica. Arte,
peraltro, non riducibile ad una sola tecnica e ad un solo linguaggio.
Riconoscimento che dovrebbe essere ovvio ma che va continuamente riaffermato e
difeso da furbizie ideologiche, interessi economici, fondamentalismi tecnici,
sofismi teorici, quali appunto i tuoi.
Come tu stesso hai scritto, «grafica è un termine ambiguo,
generico e generoso. Grafica è l'acquaforte di Bartolini e il manifesto
pubblicitario, grafica la punta secca di Rembrandt, il disegno di Picasso, la
fotolitografia di Gentilini, la litografia di Daumier e il bozzetto tramutato
in fotoincisione».
Ma il peggio, e lo sai benissimo, è che l'uso del termine come
sinonimo di stampa d'arte è stato introdotto proprio da quei venditori di fogli
di nessuna originalità verso i quali indirizzi il tuo sdegno. Sono loro che
furbescamente per glissare sull'originalità dei prodotti proposti hanno
preferito chiamarli genericamente grafica: esattamente come fai tu.
Qualcuno ha scritto (non
ricordo chi e dove) che «l'imprecisione di linguaggio, una mancanza piuttosto
frequente, diventa errore critico quando le parole vengono usate per nascondere
o distorcere il vero significato dei termini. Esempi abbondano in politica e
pubblicità».
Penso derivi da questa contraddizione la confusione in cui ti
perdi e che ti suggerisce certe assurde teorie. Qual è, appunto, quella
dell'esistenza di un unico linguaggio grafico, paradigma per ogni tecnica e
ogni stile. Linguaggio con cui, tramite i toni di grigio e nero ottenuti
attraverso le diverse modulazioni di incroci, di linee e l'uso di varie
morsure, sì realizza la «grafica incisione». Cioè la stampa d'arte per
antonomasia, tanto da rendere pleonastica l'aggiunta dell'aggettivo originale:
che deve essere di piccolo formato, godibile a distanza ravvicinata, non
destinata all'esposizione e preferibilmente figurativa.
Ma questo è, con l'aggiunta di prescrizioni che riguardano il tuo
gusto, il linguaggio dell'incisione all'acquaforte nel suo impiego più antico e
tradizionale: sublime, quando chi se ne serve sa renderlo tale, ma certamente
non l'unico.
I processi per realizzare matrici da
stampa a fine d'espressione artistica sono molti e ognuno ha il proprio
specìfico linguaggio, che è soggetto nel tempo a variazioni dettate dal
perfezionamento dei mezzi, dall'evoluzione del gusto, dalla genialità e
creatività degli artisti. Alle tecniche più antiche, calcografia, xilografia,
litografia se ne sono aggiunte e se ne aggiungeranno altre: tecniche nuove e
linguaggi diversi che potrebbero non reggere alla verifica critica o
sopravvivere alla moda del momento, ma che in nessun caso sono soggette a
certificazioni di legittimità da parte di chicchessia. Perché la scelta e
l'utilizzo del mezzo appartengono all'artista, mentre l'originalità alla natura
del prodotto.
Su questo tema permettimi di trascrivere
qualche autorevole pensiero.
Scriveva nel 1928 Paul Valery che, pur
avendo ai tuoi occhi il difetto di essere un poeta, fu anche incisore: «Vi è in
tutte le arti una parte fìsica che non può essere considerata e trattata come
si è fatto finora, che non può prescindere dalle realizzazioni della conoscenza
e delle capacità moderne. Né la materia, né lo spazio, né il tempo sono da
vent'anni ciò che erano sempre stati. Bisogna aspettarsi che novità così grandi
trasformino le tecniche delle arti, agiscano con esse sulla stessa invenzione,
giungano forse a modificare meravigliosamente anche la nozione dell'arte».
Ed
eccone un’altra coeva alla precedente. È di un artista di casa nostra, Remo
Branca, che possiamo definire storico dell'arte xilografica e lui stesso
xilografo: «In realtà sono gli uomini stessi che attraverso l’arte rivelano il
bisogno di esprimersi con linguaggio attuale, mentre, per inerzia, chiedono
alle forme invecchiate ciò che esse non possono ormai più dire, o lo dicono in
modo imperfetto: il tempo mutando esige il mutamento parallelo della forma: è
legge della vita.
Vecchia e risaputa legge per cui la
forma è una continua evoluzione tecnica. Sorgere in nome della tradizione per
giustificare la certezza, la comodità delle norme e delle conquiste del
passato, cioè altrui, è condannevole inerzia spirituale, è fiacca
intellettuale. È anche l'equivoco di chi non sa o non può assimilare il
patrimonio della tradizione, che vive proprio per l'aderenza del suo contenuto
al tempo e alla vita dello spirito, essenzialmente immutabili».
Purtroppo questa condannevole inerzia,
questa fiacca spirituale mi sembra che ti appartengano. Sono loro che ti
spingono a considerare l’originalità una questione pedantesca, perché
l’originalità non è mai in opposizione alla novità.
Pensavo a te quando, scrivendo una nota
per l’annuale catalogo «Prandi», citavo questo brano di Luigi Carluccio,
traendolo dalla presentazione alla prima Triennale di Biella, cioè di
trent'anni fa: «...sembrano in buona fede di fronte a se stessi, perché, in
realtà, non hanno ancora realizzato il fatto che l'uomo moderno, ed in
particolare l'artista moderno, cerca, perché gli sono congeniali, le soluzioni
rapide; cerca l'immediatezza, la spontaneità; né vogliono capire che in questa
ricerca l'artista supera di getto gli ostacoli strumentali, usa di ogni tecnica
mescolando le diverse, contaminandole, per sollecitare effetti che possono
apparire bizzarri, sofisticati e intellettualistici, mentre invocano, nella
babelica confusione delle lingue, il bagliore di un accento calzante.
Travalicando forse, ma sovente con buona fortuna, quel limite del «disegno» che
Mino Maccari ha recentemente di nuovo fissato come limite del distinguere ciò
che è incisione da ciò che non lo è».
Checché tu ne dica, parlando di stampe
d’arte, sono originali quelle tratte da matrici comunque realizzate
dall'artista per la creazione di immagini che si rivelano e concretizzano
nell’impressione sul foglio, o su altro supporto adatto, e che hanno come
caratteri peculiare la ripetibilità.
Questo elementare concetto mi è sempre
stato estremamente chiaro e per questo sono contrario a ogni proposta di
ridefinizione per legge o per convenzione. Iniziative che rimettono in
discussione ogni volta, svalorizzandoli, concetti chiari e radicati, ad uso e
beneficio esclusivo di studiosi, artisti e mercanti che amano discutere dei
principi per nascondere i fini.
Anche il convegno veneziano, quello che
indichi come «fallito colpo di mano tentato sotto l’egida della Biennale di
Venezia», se ha preteso di ristabilire cos’è la stampa originale, non ha fatto
che cadere nella trappola di teorici senza idee e autori senza ingegno Per la
verità, il comunicato conclusivo di quella riunione si limita a «dare alcune
raccomandazioni». In ogni caso, prima di agitarti tanto e organizzare
contro-convegni e sollecitare pronunciamenti, avresti potuto aspettare la
pubblicazione degli atti, dai quali apprenderemo non solo il pensiero dei sette
specialisti italiani e stranieri, ma anche quello espresso nelle oltre cento
risposte fornite al questionario da altrettanti qualificati operatori del
settore.
Giudicare tutto precipitosamente, con
pregiudizio enfasi e intolleranza, non ti salva da cadute e incongruenze, quali
sono quelle evidenti nella rassegna di Acqui Terme. Dei dieci partecipanti al
settore speri mentale solo uno può essere considerato tale; gli altri tutti, vi
partecipano con opere evidentemente tradizionali. Un fatto non privo di
significato, che avrebbe dovuto essere motivato e commentato.
Lo stesso va detto della presenza tra le
esemplari opere dei maestri invitati fuori concorso, di un foglio di Umberto
Mastroianni così descritto in catalogo: Grafiscultura con passaggi calcografici
a rilievo, 9 passaggi. Lastra mm. 492 x 632, foglio mm. 600 x 80.
Sono certo che non si tratta di una tua scelta, che avrai anche
protestato, ma di questo non vi è traccia nel tuo scritto. Avresti almeno
potuto allargare il tuo schema aggiungendo alla «grafica incisione», «grafica
pittura», anche la «grafica scultura»: sarebbe stata la meno cervellotica delle
tue definizioni.
La storia dell’incisione che riassumi a sostegno della tua tesi,
fa di questa tecnica la vittima secolare della prevaricazione della pittura e
del tradimento degli artisti.
Il primo a tradire «clamorosamente i principi del linguaggio della
grafica» sarebbe stato Ugo da Carpi, che, imprimendo più legni diversamente
colorali, ha ottenuto in xilografia «effetti propri dei disegni lumeggiati a
biacca». Non so se ai tempi suoi qualcuno avesse già codificato quale dovesse
essere il linguaggio della grafica, e mi domando che cosa abbia
veramente tradito il povero Ugo col fare di un dipinto una
xilografia che sembra un disegno. Vasari, pur considerando che il nostro
xilografo avesse fatto «con le stampe in legno carte che paiono fatte col
pennello», non lo biasimò per questo, anzi ne vantò l’«acuto ingegno».
Probabilmente avrà valutato che quel linguaggio insolito aveva il merito di riscattare
la xilografia da quei prototraditori che coloravano con inchiostri le figure
delineate nel legno.
In tempi a noi più vicini,
il già citato Remo Branca lamentava addirittura che «l'invenzione del
chiaroscuro non sia celebrata con proprietà dovuta, né è conosciuta come merita
la sua influenza per l'emancipazione dalla stampa illustrativa e professionale,
della xilografia come opera d'arte».
Dopo quello di Ugo da Carpi, «sul finire di quello stesso secolo
fu perpetrato un altro più grave e meglio riuscito attentato alla fedeltà
linguistica». I congiurati sarebbero stati questa volta Agostino Carracci e
Cornelio Cort: «il consapevole intendimento di costoro era quello di
ottenere con le incisioni un’imitazione sempre più vicina al modello dipinto.
Dunque modificare il tratto della grafica, (da grafein = tracciare), in
un tratto pittorico, trasformare il bulino in una sorta di facsimile del
pennello, con il quale tracciare linee curve, sinuose, spesse o meno spesse,
nel tentativo di imitare il ductus pittorico».
Mi sembra che tu dia a quei due una responsabilità eccessiva.
Secondo me, l’Oscar dei tradimenti andrebbe assegnato agli acquafortisti, se
non altro perché è più facile dipingere graffiando la cera con la punta, che
scavando col bulino il rame nudo. Non dimenticando per altro che l’incisione
all’acquaforte fu detta appunto pittoresca. Comunque, quel modo
traditore di tracciare le linee era comune ai riproduzionisti e agli incisori
di invenzione.
La lunga storia del tradimento non ebbe fine con loro; per secoli
ancora si sono avuti «intagliatori riproduzionisti intenti a imitare i modelli
pittorici sia nei modi che nel linguaggio, arrivando fino ai Morghen,
Anderloni, Ademollo, e chi più ne conosce più ne citi»: Longhi, Malaspina,
Calamatta, Mercuri.
Anche la speranza suscitata, nella seconda metà dell’Ottocento,
dalla sollevazione anti-riproduzionista dei pittori piemontesi, sfociò in un
ennesimo tradimento: «la capacità di riportare un dipinto in opera grafica
veniva solo riconosciuta all’autore del dipinto». La malapianta ha continuato
ad attecchire anche dopo la scoperta della fotografia, che affrancò tutte le
tecniche dal servizio di cronaca e documentazione.
«Troppo a lungo — rilevi con amarezza — ci si era messi in una
certa direzione per poterla definitivamente abbandonare», tant’è che
«l'incisione pittorica risorgerà in pieno ventesimo secolo sotto altre
spoglie».
Questo adattamento storico sembra voler nascondere come colpa che
tutte le tecniche per far matrici da stampa hanno avuto origini pratiche e fini
utilitari; che si imposero soprattutto per la possibilità che offrivano di
moltiplicare le immagini in tempo breve e costi ridotti. Solo più tardi, e
proprio per elevarsi da una funzione tanto modesta, ha avuto inizio la gara di
emulazione con la pittura, la miniatura e il disegno. Non si vede a quale altra
scuola avrebbero dovuto iscriversi i giovani artigiani intagliatori per
diventare artisti incisori.
Qualche riproduzionista più dotato di spirito pratico che
artistico, in un’epoca in cui era usuale fare e far fare copie e repliche,
sicuramente si sarà dannato nel tentativo di ottenere l’esatta riproduzione dei
dipinti, ma, purtroppo, i tempi non erano maturi. Il bulino non è un pennello,
e i deprecati riproduzionisti hanno dovuto ingegnarsi a tradurre nel linguaggio
proprio dell’incisione i valori della pittura. In quest’opera di traduzione
quanti avevano talento e sensibilità d'artista hanno creato opere nuove,
originali e autonome sia dal soggetto che dal linguaggio dell’opera tradotta.
Per Giuseppe Longhi l’incisione di riproduzione «è originale nella
sua esecuzione: traduce, non copia, giova alla pittura, non la serve». E non
diverso concetto esprimeva, circa un secolo dopo, Henri Focillon: «nessun
errore è più grave che prendere l’incisione di riproduzione per una copia
servile e nello stesso tempo inesatta e priva di personalità». Augusto Calabi,
e siamo nel 1934, non esitava a incitare gli amatori di stampe a non aver paura
«di passar per vecchio quando ammira qualche capolavoro dell'arte incisoria
riproduttiva; non abbia paura il collezionista di acquistarne qualche bello
fresco ed intatto esemplare. Il tempo che sta alla storia come l'indifferenza
della natura agli scatti dei nostri nervi, riparerà l'ingiustizia del secolo
decimonono, ed i fogli ben conservati saranno di nuovo ammirati e pregiati». In
ogni caso anche se non fossero che «deliziose gelide e perfette imitazioni di
dipinti» non gli può essere negata la fedeltà al «linguaggio grafico».
Se la fedeltà di linguaggio sta nel non esprimere o evocare con
una tecnica valori ugualmente esprimibili con altra, temo che il campo di
quella che chiami «grafica incisione» si riduca ad un’aiuola con qualche
splendido fiore e tante erbacce. Persino qualcuno dei fogli più belli di
Rembrandt potrebbe essere imputato di infedeltà, per quel modo pittorico di
determinare certe luci e ombre.
Al proposito, ci soccorre una nota dell'incisore Anselmo Bucci su
un dipinto di Rembrandt: «La Ronda di notte è il quadro di un incisore
che riconosce al tatto tutti i neri. Quella gradazione di ombre non si sogna
che affaticando il torchio e accarezzando il tiepido rame con tute le garze.
Qua e là, un tono cresciuto gioca, ed avanza sul resto, come per capriccio
dell’acido. La Ronda di notte è un’acquaforte di tre metri cinquantanove
per quattro quarantacinque».
Sarà che in questa tua faccenda di tradimenti non mi raccapezzo
molto, ma mi sembra di capire che il linguaggio si attiene più alla valutazione
estetica delle stampe che alla loro natura.
Fra le cose che non capisco
è perché, a tua scienza, un artista non può ripetere a stampa un soggetto già
rappresentato in pittura o viceversa. Ragioni di ricerca, bisogni espressivi
hanno spesso indotto gli artisti a ripetere un soggetto in uguale o diverso
linguaggio. Non vedo chi e perché può condannarli. So che a volte la
ripetizione avviene unicamente per sfruttare il successo di una certa immagine;
ma questa non mi sembra questione di fedeltà linguistica, bensì di serietà
professionale. In ogni caso, tra le ripetizioni dettate da esigenze espressive
e quelle meramente commerciali dovrebbero esservi differenze che un critico
attento e preparato avrebbe il dovere di cogliere e segnalare.
Particolare curioso e inquietante di questa tua crociata per il
recupero e la difesa del segno primigenio, è la mancata condanna di tecniche
quali cera molle, acquatinta, maniera nera e, aggiungerei, xilografia su legno
di testa. Tecniche ricercate e trovate al dichiarato fine di rendere le stampe
sempre più e meglio simili a disegni, dipinti, acquerelli. Queste continue
incoerenze, eccezioni, dimenticanze, insinuano tenacemente il sospetto che le
tue teorizzazioni non siano completamente dettate da interessi culturali.
In qualunque modo la si legga o la si scriva, la storia dell’arte a
stampa non offre sostegni alle tue tesi, che restano utili unicamente a qualche
tuo accolito che sa, come suol dirsi, farne tesoro.
Allo spirito prevaricatore dei pittori non poteva mancare la
complicità degli storici e critici d’arte, tanto che, dici, si è «reso
necessario il sorgere nel nostro secolo di studiosi di sola incisione». Il
plurale indica più la modestia che la quantità. Infatti, per i lettori di
questo tuo scritto, non citi, oltre te stesso, che Lamberto Vitali per un
saggio su Morandi. Poco, veramente poco.
Nella memoria di qualunque amatore di stampe originali moderne vi
è almeno notizia di molti altri scritti dello stesso Vitali su altri incisori e
persino di un libro, L'incisione moderna Italiana, edito nel 1934. Vi è
sicuramente il ricordo degli scritti di Vittorio Pica, che ne riempì quattro
grossi volumi: Attraverso gli albi e le cartelle. Vi è almeno notizia di
autori quali Cozzani, Del Maso, Servolini, Calabi, Petrucci, Guarnati,
Bartolini, Branca, Ratta, e altri studiosi, artisti, critici, letterati, forse
non specialisti, ma sicuramente competenti. Non intendo con questo insinuare
che tali autori e le loro opere ti siano ignoti, e so anzi che li hai più volte
citati in altri scritti, ma questi, per buona fortuna, non sono largamente noti.
Siamo comunque alla prima metà del secolo, poi effettivamente,
forse proprio a causa del sorgere degli studiosi di sola incisione, non si sono
pubblicati sull'incisione contemporanea scritti di ampio respiro, e si può
essere contenti di qualche saggio breve e, qua e là, qualche bella pagina di
circostanza.
Anche quando parli dì manifestazioni artistiche sei avaro di
citazioni. Ci dici unicamente delle «meritorie» rassegne di Oderzo, di Grado, e
di questa di Acqui Terme: tutte realizzate con la tua partecipazione. È da
credere che tu non ritenga mentori i premi che la Biennale Internazionale di
Venezia riservava alle stampe d'arte, né la Triennale di Biella, né quella di
Milano, né le storiche Biennali organizzate da Giorgio Trentin presso la
fondazione Bevilacqua La Masa, né le rassegne di Cittadella, o quelle di
Palazzo Strozzi a Firenze, e del Castello dei Pio a Carpi; meno che mai, per
ragioni patriottiche, quella di Lugano. Forse son proprio queste le
«manifestazioni culturalmente assai squallide, il cui tentativo era appunto
quello di affiancare i fotolitografi agli incisori originali», alle quali
alludi.
Persino il titolo dato da Adam Bartch al suo celebre catalogo: Le
peintre graveur, che sembra il motto del riscatto dell'incisione, il
monumento alla libertà dalla prevaricazione della pittura; persino quel titolo,
per te, «nonostante la ponderosa concisione, rimane un’espressione un po’
equivoca!».
Sembra - e qualcuno dovrebbe affettuosamente preoccuparsene - che
tu voglia cancellare i segni e i meriti del passato per accreditarti quale
salvatore, difensore e giudice della vera incisione. Ambizione difficile e
pericolosa che potrebbe portarti, al massimo, a diventare il Joseph Smith
dell'incisione, patriarca venerato dalla setta dei Cera-punta, fanatici
adoratori del grafein = tracciare.
Io non intendo minimamente discutere la tua predilezione per
l’incisione nelle sue tecniche e linguaggio più antiche e tradizionali; sono
convinto che possano ben servire lo spirito moderno e dare autentici capolavori.
Contesto, perché falsa e dannosa, la pretesa che essa sia l'unica in grado di
consentire la realizzazione di stampe
d’arte originali. Allo
stesso modo non dubito che un artista possa decidere di esprimersi
esclusivamente con l'incisione, ma escludo che tale scelta possa costituire
elemento di maggior valore o purezza.
Scriveva Leonardo Borgese, un critico d'arte che, ai tempi suoi,
fu considerato un «conservatore», e che fu anche un buon incisore: «...se
un’acquaforte vi da l’idea del tratteggio elementare, secco, povero, noioso,
non dovete credere per questo che si tratti di una cosa pura, onesta, severa,
classica. In arte onestà e purezza sono doti ben diverse che non vanno confuse
con semplicismo e mancanza di fantasia».
A ben guardare, molti di questi tuoi maestri della «grafica
tradizionale», detta anche «grafica incisione»,
fanno un gran citare
Bartolini, Maccari, Viani, Morandi, Viviani, ma finiscono con l’esibire
esercitazioni tecniche che fanno rimpiangere gli antichi bistrattati riproduzionisti.
In essi la fedeltà e il rispetto della tecnica fanno agio su quel tanto di
inventiva, di sentimento e genialità necessari a giustificare lo sciupio di
acido e rame.
Sostenere che tutto ciò è necessario per difendere l'arte a stampa
originale dal dilagante spaccio di riproduzioni artigianali o, peggio,
fotomeccaniche, è un inganno. Ed è un inganno, perpetrato in assoluta malafede,
l’assimilare questo genere di riproduzioni a quelle opere che, pur se
irrispettose di quel linguaggio grafico che vorresti imporre come dogma, sono
stampe originali, frutto della creatività e manualità dell’artista. Se di
qualcosa soffre oggi l’arte a stampa, è del disimpegno degli artisti più
attenti e creativi. E anche i tuoi formalismi e fondamentalismi contribuiscono
non poco ad attenuare in alcuni di loro il desiderio di cimentarsi con mezzi
espressivi nuovi e diversi.
Lo spaccio di riproduzioni come stampe originali è un fatto grave
che mortifica innanzitutto gli autori che lo avallano, i critici, gli studiosi
e i cronisti d’arte che non le riconoscono o non hanno il coraggio di segnalare
opera e autore. Eppure sono convinto che, nei limiti della disonestà umana, il
problema sia risolvibile. La soluzione, lo dico sapendo di ripetermi, sta nella
fine di ogni pretesa di porre limiti alla libertà creativa dell’artista: idea,
linguaggio e tecnica. Che è, in buona sostanza, il riconoscimento del valore
dell’originalità.
Ma non basta. Bisogna affermare l’utilità per la diffusione della
cultura figurativa delle stampe di traduzione artigianalmente eseguite,
dichiarate e riconoscibili come tali.
Cominciando a scrivere queste poche righe mi ero proposto una
trattazione più ironica e mi accorgo ora di averti (e di essermi) preso sul
serio.
In conclusione credo di dovermi scusare per l’eccesso di
citazioni. Devi sapere che quando, qualche anno fa, dissentendo dalle critiche
di un tuo collega, gliene scrissi, mi rispose indignato chiedendosi e
chiedendomi come mi permettessi io, «uno stampatore tout court», di invadere un
campo di esclusiva competenza di studiosi e critici. Ne fui profondamente
rammaricato, tanto che ora, al momento di ricadere nell’errore, ho cercato
vigliaccamente di farmi scudo con citazioni di autori «classici» in materia.
L'ho fatto senza particolare entusiasmo, consapevole del fatto che, come
consigliava Savinio, è meglio non mettersi «nella condizione di coloro che
hanno per i classici una venerazione assoluta, ma ignorano perfettamente la
loro opera. Anche i culti vanno trattati con necessario granellino di sale. Dirò
per terminare che essendo i classici vissuti prima di noi, l’autorità nostra
anche in fatto di sgrammaticatura è a rigor di logica maggiore della loro».
E a ben guardare anche questa considerazione, meglio che al mio
citazionismo, si attaglia come monito alle tue stesse teorie.
P.S, Avevo chiuso questa lettera quando sono venuto in possesso
della bozza di una «Nuova Dichiarazione di incisione originale» che, ancora una
volta in coppia, la «Bertarelli» e la tua rivista, intendete proclamare nella
prossima primavera.
A dare misura del livello culturale della ineffabile iniziativa è
sufficiente riportare il seguente paragrafo:
Premesso che, in ogni
lingua europea, il termine «originale» ha il significato di «proprio delle
origini» (Dizionario Zingarelli), «che risale alle origini» (Dizionario Devoto
Oli), «existent from the first» (Oxford Dictionary), la presente dichiarazione
intende, con tale attributo, porre una distinzione fra le incisioni che vengono
eseguite secondo i criteri in uso fin dalle origini, e quelle che -pur essendo
anch'esse stampe d'arie - vengono realizzate con altre tecniche.
Su questa demenziale lettura del vocabolario si basa l’intero
impianto della nuova Carta dell’originalità,
La bozza è attribuita ad un
comitato i cui membri non cito, nella convinzione che simili scoperte possono
essere solo tue e del direttore della «Civica Raccolta delle Stampe Achille
Bertarelli», che da tempo ormai sponsorizza le tue trovate.
Nessun commento:
Posta un commento