Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi alla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno Grazia sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo...》
Breve estratto da una lettera, non di Onorio Del Vero, ma di don Lorenzo Milani a don Ezio Palombo, Barbiana 25/03/1955.
Luigi Bartolini, LO STUDIO (UOMO CON GRILLI IN TESTA) acquaforte, 1942 mm 152 x 100 |
Sentiamo continuamente deplorare la scomparsa della critica d'arte, ovvero la scomparsa di un giudizio chiaro, inesorabile e puro. Si auspica un'intelligenza lucida, chiara e altera, che esamini con distacco, un'intelligenza che guardi agli artisti e non a sé stessa, misurata e implacabile nei confronti delle opere nel definirne vizi ed errori.
Ma affinché possa esistere un'intelligenza di questa specie, dovremmo tutti avere nel nostro spirito una lucidità e una purezza di cui tutti oggi siamo privi, di cui è priva la società, e non può aver vita fra noi un essere troppo differente da noi stessi, troppo differente dalla società nella quale è stato generato.
L'artista dal critico si aspetta (e non ha mai) un giudizio che lo aiuti ad essere più fortemente quel che già è, si aspetta benevolenza, come qualcosa che gli sia dovuto e se non la ottiene si sente incompreso, perseguitato, vittima di un odio ingiusto e pronto a scorgere nel critico qualche fine spregevole.
Se l'artista è amico del critico, o se semplicemente si sono a volte incontrati scambiando qualche parola, l'amicizia o quegli incontri sporadici lo fanno certo che il giudizio del critico sarà lusinghiero; e se non è così, e al posto del giudizio positivo ne ha invece una stroncatura spietata, o più spesso soltanto silenzio, l'artista precipita in uno stupefatto sconforto, per poi subito infiammarsi di velenoso rancore, come se la vera o presunta amicizia o i rari incontri gli avessero dato diritto a un favore eterno. Perché il nostro malcostume sociale porta a chiedere all'amicizia, o anche ad un semplice sorriso di cortesia, non già un giudizio sincero ma l'immediato vantaggio.
I giudizi della critica sono, per lo più, intrisi di simpatia o antipatia, di affetto o di odio. A volte si tratta di simpatia o antipatia personale; a volte la simpatia o l'antipatia sono rivolte non al singolo artista, ma alla corrente alla quale si ritiene appartenga.
La simpatia altrui è sempre molto gradita, si gode, per qualche istante, di una profonda sensazione di benessere, ma sfumata questa sensazione gli interrogativi sulla qualità del proprio lavoro si ripresentano uguali a prima.
L'antipatia altrui dispiace, immediatamente si reagisce con altrettanta antipatia, il dubbio di essere inutili e il dubbio che siano "cose inutili" i malevoli giudici, si aggrovigliano e si finisce per detestare insieme sé stessi, la critica e la vita intera.
La critica rappresenta un'altra delusione, quando si avverte nella sua scrittura, solo un pretesto per la costruzione letteraria. Quando, già a distanza, se ne avverte l'odore, si estingue immediatamente la fede nel giudizio anche se tale giudizio si mostra adorno di eleganza. L'eleganza, le raffinatezze di stile del critico non sono affatto utili all'artista: può ammirarle, ma non sa che farsene.
Certo al critico non dovrebbe importare nulla delle reazioni dell'artista, se avesse la chiara coscienza di aver pensato e scritto giustamente. Ma i critici sono oggi fragili, nevrotici e ipersensibili. Temono di trovarsi da soli a dire il vero, oppure aspirano ad essere odiati come condimento piccante della loro esistenza. Desiderano ammantarsi di odio, come una luccicante divisa e l'aspirazione all'odio, sfoggiato come una civetteria sociale, così come la paura dell'odio, non può costituire un saldo basamento per la ricerca e l'affermazione del vero.
Una cosa che ritengo non dovrebbe mai fare un artista, è dolersi fuori di misura per le critiche negative o, più di frequente, per il silenzio che ricadono sulla sua opera. L'attribuire una smisurata importanza al riscontro dell'opera, rivela nell'artista una mancanza d'amore per l'opera e per sé stessi. Se l'artista ama veramente il suo lavoro, e non fa l'artista solo come mezzo di affermazione (sociale, economica... prestigio, orgoglio, vanità...), ciò che accade alla sua opera, la sua sorte, il favore o l'incomprensione che potrà incontrare, non hanno che una importanza effimera.
In verità l'artista non ha diritto di chiedere, per la sua opera, niente a nessuno. Quando ha sollecitato il gallerista perché gli paghi ciò che gli è dovuto, esigenza legittima e indispensabile, non gli restano altri compiti pratici nei riguardi delle sue opere. Può restarsene a casa, in riposo a pensare a sé stesso, o allo studio a pensare al prossimo lavoro. Invece è certamente dannoso pensare troppo alle opere già realizzate e che vanno, nel clamore o nel silenzio, per la loro strada. Ha avuto il grande piacere e privilegio di realizzarle e questo, in fondo, gli dovrebbe bastare per sempre.
Non ho inteso dire che all'artista i giudizi dei critici debbano essergli totalmente indifferenti: può essere utile - sempre che siano giudizi sinceri e non sollecitati o estorti o acquistati - metterli a confronto con il giudizio che lui stesso, nel profondo del suo spirito, ha della sua opera, e studiare di capire quanto del suo stesso giudizio sia dettato da un istintivo perdono per i suoi propri errori, quanto sia limpida conoscenza e quanto sia delirio e superbia. Ma raramente si riesce a guardare le proprie opere con distacco, raramente si riesce ad essere così saggi.
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