APPUNTI
E CONSIDERAZIONI 1985 - 2005
CASE A SORANO, 1971. Acquaforte su zinco 270 x 240
Prima incisione realizzata in assoluto durante gli anni
all’Accademia di Belle Arti di Torino (1971 – 1975).
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Registro le mie giornate di lavoro adottando
vincoli scelti, anni fa, tra materiali e strumenti che non richiedessero
preparazione preventiva, mescolanze, diluizioni, pulizia e manutenzione. Tutto
quanto da allora resta tale: il supporto orientato, la punta e l’inchiostro.
I
tre vincoli assumono la particolarità di fornire comoda licenza dagli accidenti
che sorgerebbero proporzionali all’adottare varietà di supporti e di materiali.
Credo non mi sia congeniale essere
equilibrista: costruire giostrando sulla sfera cromatica e dare svolgimento
alla tipologia dei supporti. Occorre poi l’abitudine, nell’accingermi al
lavoro, alle dimensioni e all’orientamento del supporto, giacché non sono sarto
per tutte le taglie (e di tutte le borse). Mi importuna scegliere in partenza,
così subendo, di volta in volta, il contenitore di diversa dimensione, gli
strumenti ed il materiale da stendere sulla superficie per registrare nel tempo
il mio intervento; iniziare ripetutamente a prendere confidenza, proporzione e
conoscenza con materiale e condizioni di lavoro sconosciute.
Le
variabili non mi risulta siano occasioni per nuove possibilità espressive ma,
viceversa, stati inopportuni che si presentano nei momenti dove l’uso del
materiale non può assolutamente coincidere con la sua conoscenza; né credo
proficua una forma di espressione che identifichi conoscenza e uso. Concentrato
nel lavoro devo darne applicazione il più possibile scevra da accidenti: non
tradire i segni edonistici del domatore, ma, semmai, tentare quelli del
virtuoso.
Credo che l’unico rischio da affrontare
sia la continuità; l’unico obiettivo la ricerca di un’articolazione del
discorso figurativo svincolato da grammatiche materiali complesse per quantità
e molteplicità di variabili, ciascuna propria e caratterizzante una tecnica.
L’adozione
ridotta dei materiali di lavoro (al limite della possibilità del tracciare) e,
di conseguenza, il massimo numero di vincoli, pone immediatamente in condizioni
di registrare il mio intervento.
Mi è fonte di stimolo non la novità e
la ricchezza materiale, ma la necessità di racconto da esprimere in condizioni
scontate per abitudine.
Le riproducibilità è duplice necessità:
d’ordine pratico e insieme etico per consentire eventualmente a chi lo desideri
comoda e privata lettura, superando la contingenza dell’esposizione temporanea,
e per conservare all’autore integra raccolta delle sue tracce, che avverto
fondamentale dover mantenere sempre possibile e ordinata come riferimento del
divenire del lavoro.
Maggio, 1985
ALBERO, 1971. Puntasecca su zinco 245 x 320
Prima puntasecca. Dal vero in una sola lezione
nel cortile dell'accademiasotto lo sguardo critico
di Mario Calandri e Francesco Franco
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Altro ritmo del pensiero e nel
movimento procura il bulino. Allo scorrere, al curvare, al deviare, al fermarsi
della traccia, è da considerare la sua “dimensione verticale”, connaturata alla
sua natura di strumento di scavo. Scavo che implica un impiego ulteriore di
energia che, a rischio, s’impara non debba essere forza bruta; ché il ferro
come fiera maltrattata, si imbizzarrisce potendo andare, con volo irrazionale,
anche a ferire.
Energia
non tanto muscolare esercitata da braccio-avambraccio e mano, ma coinvolgente
tutto il corpo: dai piedi che pareggiano la spinta dell’arto superiore, alle
natiche che sono fulcro tra spinta e appoggio inferiore. Energia che viene
applicata allineando e avvicinando il più possibile il punto di appoggio del
ferro al baricentro del corpo.
Il segno lo si sente crescere e
procedere “dentro”, connaturato a questo sistema di leve così organizzato, e
questo per tutta la “durata” delle tracce e per ognuna di esse. Se si rompe
questo equilibrio non si controlla il ferro.
Letteralmente
non ci si può scordare di una parte di sé, perché tutto l’organismo è sistema
equilibrato in movimento che, solo, può permettere il controllo del segno. Tale
controllo esime dall’impiego di energie mal concentrate ed annulla ogni valore
di credibilità a “mitiche fatiche” che paiono prospettarsi iniziandosi allo
strumento.
Segno del pensiero che non si posa, ma
si scava. Che si pensa, si vede, ma che poi occorre scavare. Ed allora, per
evitare che il tempo di scavo esaurisca pensieri e visioni balenate o peggio
per evitare uno scavo che semplicemente traduca segni tracciati altrimenti, ho
tentato di scavare pensando.
Febbraio, 1989
TESCHIO, 1973. Acquaforte su zinco 225 x 220
Dal vero alla scuola di anatomia.
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L'operare
per segni a bulino, prima o poi, comporta il richiamo a norme esecutive di
riferimento che sono radicate nei modi di una tradizione storica plurisecolare
e la normazione cui è stato vincolato può legittimamente suscitare
interrogativi sulla natura del segno che vado operando, cosa che il solo
utilizzo di pennino ed inchiostro avrebbe esentato.
Il
segno deriva da una scelta, operata nel 1981, quando, disegnando con pennino ed
inchiostro, sono giunto ad impiegare, con continuità, l’evidenza dimensionale
del segno che giudico anche ottimale nel mio operare sulle matrici.
Tralasciando di trattare della tecnica con cui realizzo il segno a bulino,
esaurendosi questa, in null’altro che nell’operare del ferro, propongo alcune
considerazioni, suscitate e stimolate da richieste che ritengo non solo
curiose.
La derivazione del segno a bulino dalla
precedente esperienza - che non ha comportato “forzature” tecniche né
nell'incisione, né nella stampa - ha, per me, motivazioni legate non solo alle
mie possibilità operative, ma ragioni che intendo anche cercare di giustificare
sul piano della forma etica.
Due
sono i livelli che, nel mio ragionamento, riesco ad evidenziare:
a)
- se il segno è di scarsa o nulla evidenza, per dimensione, descrittibilità e
contrasto, la sua costituzione sintattica e la sua stessa stesura possono
indurre o rendere indispensabile il ricorso a strumenti che consentono di alterare
o di celarne l’evidenza, in condizioni di normale leggibilità. Stessi risultati
comporta l'uso di strumenti traccianti che, per i limiti di acuità dell'occhio,
rendono inintelligibile la superficie incisa e stampata in condizione di
normale “messa a fuoco”.
La superficie che non denuncia e non
rivela chiaramente l’elemento segnico costituente l’immagine, evoca la
struttura dell’informazione visiva così come viene registrata a livello
retinico. La perdita di evidenza e di corporeità del segno possono rendermi
scontato il ricorso ad elementi figurativi imitativi e descrittivi, simili a
quelli fotografici, di cui potrebbero - per tale natura caotica ed
indeterminata del segno - diventare interpretazione, citazione o semplice
traduzione. In tale ambito il segno si mimetizza, acquisendo valore
mistificatorio.
In
assenza della possibilità di leggerlo emerge, dall’osservazione del lavoro, lo
stupore. Lo stupore di ritrovare sul foglio l’impenetrabilità dell’equivalente
brano naturale; lo stupore di essere riusciti a ridare all’occhio ciò che
l’occhio ha registrato sulla retina.
L’esercitazione sulla resa
illusionistica è quindi destino o scelta d’inevitabile tributo ad una procedura
inintelligibile all’occhio del fruitore.
b)
- credo che, cercando di non cadere nell'applicazione del segno-segnale, il
mantenere ad un livello più equilibrato il rapporto con l’evidenza segnica, mi
offra maggiori occasioni di evitare le nevrosi di cui sarei preda
nell’inseguimento della riproduzione imitativa ed illusionistica del dato
visivo, ove il vincolo delle apparenze finirebbe col costituire fastidioso
gravame. Mi riferisco ad un livello della dimensione del segno e della sua
organizzazione che non rinneghi, defilandola, la sua natura grammaticale e
significativa, permettendone chiara e naturale lettura.
FIORE, 1975 – 76.
Bulino su zinco 150 x 195
Primo uso del bulino con rischio di stigmate
(la cicatrice non se ne è più andata)
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ESTATE, 1976.
Acquaforte su zinco
dimensioni variabili tra 245 x 330 e 210 x 250
Serie di 6 lastre con tentativi di applicazione di colore.
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Rilevo che evidenti differenze emergono
nei destini che seguono ad una scelta.
Quando
s’assiste all'azione di un bravo illusionista ci si scopre più soddisfatti ed
appagati dallo stupore che suscita
anziché per quanto rappresenta: non interessa tanto il “coniglio”, quanto la
sorpresa di vederlo uscire vivo, vegeto e grazioso dal “cappello a
cilindro". L'operatore di tale tipo di rappresentazioni si connota, ed è
connotato, per bravura e abilità, non per la particolarità di cosa esprime
Credo possa essere condivisa la
considerazione che la rappresentazione più è illusionistica più richieda un
atteggiamento teso all’esecuzione dell'immagine da raggiungere, non al
tentativo di generare un’immagine da conquistare.
Tale
indirizzo al lavoro richiede soggetti preventivamente selezionati, preparati
alla bisogna, studiati, documentati e organizzati in modo tale da conservare
nel tempo le dimensioni, l’orientamento e l’equilibrio chiaroscurale. La
particolarità dei soggetti rappresentati ha in ogni caso una sua importanza
perché, si converrà, l’esibizione risulterebbe viziata da un ché di fastidioso
se, dal “cilindro” l’illusionista cavasse fuori una pantegana, anziché il
coniglio.
L’esecuzione
quindi è esaltata se la scelta sarà operata su soggetti ad alto valore
simbolico ed affettivo, desunti dalla rappresentazione di ciò che era, di ciò
che è stato e di ciò che questo è diventato. L’immagine che ne nasce è
conservatrice, nei casi migliori è venata da malinconici rimpianti,
antiquariale e documentale; negli altri è banale e patetica.
Il
procedimento esecutivo condiziona l’operatore in una dimensione innaturale,
dotandolo di protesi oculari a molti ingrandimenti, di strumentazione grafica,
di preparazioni del supporto e di fasi operative tendenti ad avviare e
conservare le possibilità di lavoro che consentano di operare il segno,
altrimenti inintelligibile in condizioni normali.
Che dire del destino dell’altro?
Ottimisticamente
credo rimanga ogni potenzialità, privata del “cappello a cilindro” che ne
faccia da mediatore.
Rappresentazioni
di brani di un’esperienza umana hanno necessità di trovare mediatori attivi:
-
che ne operino la lettura e l’analisi, privi del pregiudizio che porta ad accettare
il prezzo che volentieri si paga per fruire conferme e piaceri noti e
rispondenti alle attese; - che li assumano disposti a cercare non solo
conferme, resistendo alla passiva sicurezza delle apparenze, e se ne approprino
senza l’esclusivo appagamento dello stupore e dell’emozione nostalgica o
patetica, consci che l’immagine è elemento conflittuale da governare in un
rapporto relazionale irrisolvibile ed inesauribile.
-
che li collochino, rivestiti, nella sfera della loro esperienza, come essenze
stimolanti.
-
che ignorino le operazioni “sottotraccia” e che, nella visibilità del segno,
accettino l’inconciliabilità tra segno di progetto e segno realizzato,
rifiutando il disperato tentativo di annichilire la percezione della traccia
col ricorso a protesi oculari.
-
che fruiscano di un’immagine che restituisca il filtro dell’esperienza che l’ha
vissuta e assimilata, superando l’ostentamento illusionistico dell’apparenza
retinica.
COPRICAPO PER SIGNORA (op. n° 1), acquaforte 134 x 96
Inizio della numerazione progressiva delle incisioni in ordine di realizzazione
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Credo
debba essere mantenuta la visibilità del segno anche ai più presbiti che
possono imbattersi in esso, sia per onestà che per necessità: il segno non è un
paria, buono soltanto ad esistere
come componente infinitesimale per superfici a struttura caotica, da sfruttare
ad ogni scopo illusionistico. Il segno è registrazione tentata e limitata d’una intenzione: è parola letta
e recitata; è notazione. E scrivere o leggere un testo, con sul naso “lenti” da
ingrandimento, è operazione incongrua, al più necessaria ad un impiegato della
Zecca o ad un falsario.
Il
segno è preghiera che, se si ha fede,
ha bisogno e coraggio di “recitare ad
alta voce” perché Dio non sia
almeno infastidito dai “sommessi brusii”
che si levano tra gli “oranti” e
irritato dalla perdita di senso dell’operazione con la cantilenante, mascherata
ripetitività, ipocrito rimedio alla mancanza di fede.
Il
segno è un atto di senso e di consapevolezza che ha da essere mostrato nella sua
evidenza corporea, che, come tale, potrà non piacere, ma che mai, vergognoso,
dovrà essere esiliato nell’illeggibilità.
Credo
fiduciosamente che valga la pena semmai di offrire segni anziché esibire
inarrivabili abilità che scimmiottino coni e bastoncelli, il granulo di
alogenuro d’argento o il pixel, nella convinzione che il segno è dell’uomo il
quale mai potrà ridursi o identificarsi con una retina, una pellicola
fotografica o un Charge - Coupled Device.
Settembre, 1986 –
Novembre 1991 – Dicembre, 1997
Lavorando con tecnica diretta su
matrici metalliche viene a porsi lo scarto rilevabile tra queste e le relative
stampe su carta. Scarto che non equivale alla polarità positivo-negativo che si
evidenzia dall’esame di matrici e di stampe elaborate con altre tecniche, ma
che intendo porre come duplice inversione di significato tra segno scavato VS segno stampato e tra superficie risparmiata sul metallo VS
superficie bianca sulla carta da stampa.
Sulla
matrice il segno è luce, che s’è tolta solo materia con lo scavo. La finestra
di fronte ne dà, sull’altezza del segno, almeno tre valori chiaroscurali: a
partire dall’alto, prima lo scuro, poi un sottile tono medio ed ultimo, l’abbacinante
riflesso metallico.
E’
un segno vitale e mobile nel variare dell’orientamento dei segni e della
lastra, rispetto alla fonte di luce.
Sulla
carta il segno è elemento riportato, appiccicato dalla pressione del torchio
dotato di uniformità di tessitura e di tono in tutta la sua altezza.
E’
un segno statico, rappreso e fermo al variare del suo orientamento, muto alla
fonte luminosa.
La prima inversione di
significato è prodo
Sulla
matrice la superficie risparmiata, che separa valori d’ombra e baluginii
metallici, ha valore neutro, vergine; caratteristico del materiale non
lavorato: spesso poi i giorni di lavoro e l’esposizione all’aria iniziano
processi di ossidazione che la rendono grigia e non riflettente.
La
superficie, stampandosi sulla carta senza lasciare traccia, acquista una serie
di differenze apparenti di luminosità che le conferiscono vitalità e
vibrazione: questo per le delimitazioni che, segni opachi, variamente
organizzati, e fortemente contrastanti per colore procurano.
La seconda inversione di
significato è prodotta dall’acquisizione di vitalità luminosa della superficie
risparmiata che perde di neutralità quando è stampata sulla carta.
Si
realizza così un’inversione incrociata di significati tra segno inciso-segno
stampato e tra superfici risparmiate sulla lastra-superfici stampate sulla
carta; dove l’inversione è provocata dallo scambio - tra matrice e stampa - di
valori luminosi (dell’indice di luminosità) tra segno inciso e superficie
risparmiata: dove cessa di brillare il segno inciso, “s’accende” il riflesso
della carta.
SPAVENTAPASSERI, 1983. Disegno inchiostro su carta (foglio cm 50 x 70) |
Tale scambio mantiene e conferma la
parità estetica tra matrice e stampa, giacché non si verifica dono unilaterale,
con perdita e guadagno dell’una sull’altra.
La
coerenza che posso raggiungere sulla lastra può trasformarsi in equilibrio
“altro” sulla stampa, dimostrando di godere entrambi di dignità ed indipendenza
estetica.
Non
mi è possibile operare una scelta che escluda la stampa, perché considero
l’operazione di scavo come fase di un processo che non può non fare seguire al
segno scavato quello stampato e, alle aree di metallo risparmiate, la
luminosità riflessa dalla carta.
Non
credo mi sia possibile raggiungere un livello di esperienza che consenta, a
priori, di compiere la lettura dell’inversione incrociata dei significati per
ricavarne indicazioni operative per organizzazioni di segni utili: la stampa
riserva sempre sorprese.
Volendomi
garantire la possibilità di conservare la stampabilità della lastra - ovvero di
mantenerne la natura di matrice - avanzo nel lavoro tentoni, riempiendo per
quel che è possibile i segni già scavati e procedendo per stampe di stato prima
di riprendere a scavare. Il cammino è reso così frastornante da tale ambiguità
che, spesso, impeti di irrazionalità e l’inerzia stessa dello scavo, possono
indulgere nel convincere di stare realizzando un oggetto svincolato dalla
funzione di matrice.
Il
lavoro e l’attenzione condotti unicamente sulla lastra di metallo, possono
portarmi a conseguire risultato unicamente verificabile sulla medesima o su
stampe bisognose di ritocchi.
VALICO, 1984. Disegno inchiostro su carta (foglio cm 50 x 70) |
Spesso la sorpresa generata dalla
percentuale di imprevedibilità che la stampa rivela, su organizzazioni segniche
scavate - e come tali giudicate ed assimilate per proseguire nello scavo - mi
fa balenare soluzioni che vorrei definitive, modelli da riutilizzare, postulati
risolutivi.
La
comparazione tra segni sulla matrice e segni sulla carta può eliminarmi dubbi
ed incertezze emerse nella fase di scavo: dubbi sulla “tenuta” delle loro
organizzazioni, sulla stabilità del loro significato, sulla loro dignità ed
autonomia. Ma può anche generarne, sconcertandomi, perché spesso accade che
certi bianchi (certe luci sulla carta) possono emergere con troppa forza da
varchi limitati sulla lastra, o diluirsi oltre misura tra segni troppo lontani.
E’ una sottile alchimia che, a piccole
dosi e mescolando letture di matrice e letture di prove di stato, consente, nello
sviluppo del lavoro, di non acquisire o di tenere sotto controllo valori
indesiderati; di non oltrepassare il limite - per altro non perfettamente
controllabile - che, sempre, fa percepire di maggiori dimensioni il segno
scavato (perché più luminoso) rispetto a quello stampato e di maggiore
estensione le superfici stampate rispetto alle analoghe risparmiate sulla
matrice (perché più luminose).
Occorre mi mantenga in equilibrio ed
equidistante dai fascini diversi esercitati da matrice e stampa; fascini che
considero vadano percepiti e fruiti separatamente, con discrezione.
Godere
moderatamente della lettura dei segni scavati mi consente di integrare questo
piacere con quello provocato dalla lettura delle loro impronte sulla carta da
stampa.
Gennaio 1990
TARLATANA, 1984. Disegno inchiostro su carta (foglio cm 50 x 70)
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Variabilità all’organizzazione segnica
che si vuole uniforme si innesca e si sviluppa dalla disposizione dei segni che
ne saranno gli elementi costituenti.
Il
procedere da sinistra a destra produce altra organizzazione che la procedura
inversa; così accade nel far seguire verso il basso, anziché il salire verso
l’alto “file” di segni. Ad un “feroce autocontrollo” spetta poi l’automatizzare
ritmato dell’atto che scandisce segno ed intervallo, ché, altrimenti, ulteriore
variabilità viene ad arricchire ed ad allontanare il proposito iniziale di
organizzazione piana ed uniforme.
Autocontrollo
che si dimostra, al pari d’altre proprietà, soggetto a cicli schematizzabili in
fasi di avviamento, di culmine e di decadimento: al proposito segue il rodaggio
e l’affinamento del gesto che avvia il ciclo che, raggiunto il culmine, dove il
proposito compiutamente si traccia, cala, decadendo in concentrazioni o
diradamenti dei segni e degli intervalli, per inerzia ed assuefazione allo
stimolo.
Ad organizzazione segnica avviata,
soccorre ed inganna quanto, di essa è già presente sulla lastra. Guida ed
assieme trappola il già realizzato: testimone attendibile ed ausilio al
procedere, maestro nel dimostrarti le possibilità di concretizzazione del
proposito, ma anche contenitore di quanto prodotto avviando ed esaurendo i
cicli attenzionali che, surrettiziamente, possono portare in direzione insolite
ed insospettabili. A volte mi sono trovato a limitare gli sviluppi delle tracce
che andavano ruotandosi oltremisura, contraddicendo l’intenzione di
unidirezionalità con cui ero partito e che ero convinto di stare mantenendo.
Subdolamente emergono poi in verticale
e in ogni altra possibile direzione, il ritmo degli intervalli, delle
piegature, delle concentrazioni e dei diradamenti dei segni. Sono
organizzazioni che rappresentano un secondo livello segnico, percepibile da ciò
che, per esempio, poteva essere la ripetizione di un tratto con andamento orizzontale,
e, come tali, suscitatrici di altre configurazioni, di equilibri luminosi, di
riferimenti figurativi. Questa percezione tentatrice rende spesso
sproporzionato per difetto e paradossale ciò che la origina, ovvero sia il
proposito che la traccia, tanto che viene voglia di provare ad articolare
direttamente, stimolati da un senso di risparmio fuori luogo.
Il
rischio è di scoprire, procedendo in questo senso, che non solo non s’è
risparmiato nulla, ma di vedere formarsi altra organizzazione segnica: organizzazione
alterata, come di calligrafia imitata. Se sono occorsi, ad esempio, tre
interventi successivi per completare un segno, altra cosa ottengo articolandolo
con un unico movimento. Non che tale articolazione debba essere necessariamente
rifiutata, mantenendo evidenti i vincoli di familiarità con la precedente, ma è
altra cosa: di fatto un nuovo elemento segnico, da intendere proprio di un
nuovo primo livello articolatorio.
A lavoro avviato, oramai ai limiti
della possibilità di controllo nel coordinare l’uniformità progettata delle
tracce, altre fonti di variabilità sono da considerare.
Il
filo tagliente dello strumento tracciante esplica al meglio la sua funzione per
un numero limitato di segni. Essa non cessa repentinamente, ma si avverte via
via calante. Tra un’affilatura e l’altra il ritmo delle tracce - che è ritmo di
entrata e di uscita dalla matrice - trova via via ostacolo nel calo di
funzionalità dello strumento. Ostacolo che si traduce nel rallentamento del
ritmo di stesura, in una variazione dello stato di autocontrollo, in un
irrigidimento del segno, in una accresciuta profondità dello scavo ed in un
aumento del rischio di perdita di controllo del ferro. Con la progressiva
riduzione delle possibilità di intaglio avviene, in sequenza, che il ritmo
segno-intervallo cala, aumentando il tempo di scavo; che l’autocontrollo
aumenta nel tentativo di governare lo strumento; che il segno aumenta di
profondità perché maggiore forza occorre per entrare nel metallo e che la forza
applicata, accresciuta per l’irrigidimento dell’articolazione del polso,
attenua la sensibilità del segno, accrescendo i rischi di perdere il controllo
della traccia.
FISCELLA, 1985. Disegno inchiostro su carta (foglio cm 50 x 70) |
Il calo di funzionalità del bulino è
fonte anche di variabilità nel punto di entrata nella matrice, ovvero nella
traccia, di spessore crescente, da cui ha inizio il segno; traccia
corrispondente all’applicazione progressiva dello sforzo che rivela per prima,
nel punto ove si saggia il metallo, il consumarsi del filo dello strumento.
Ruolo principe lo svolge l’operatore,
laddove lo scopo non sia quello della traduzione; dell’uso di organizzazioni
segniche da manuale, della realizzazione di esecutivi con tracce guida
realizzate all’acquaforte e con gli spessori del tratto raggiunti con ferri di
sezione progressivamente maggiorata.
La traccia scavata nel metallo esprime
la ricerca ed il tentativo di armonizzarsi con i propri ritmi. Ritmi del
disporre i segni uno dopo l’altro; ritmi del lavoro giornaliero sulla lastra
che viene ad accumulare, nelle settimane, brani di avvio, di serena e piana
stesura, di stanchezza e di ripresa, di speranza, di soddisfacimento, per un
insieme pulsante per indirizzo e variabilità, omogeneità e disarmonie che,
avviandosi a saturare la superficie disponibile, occorre “chiudere” con uno
sforzo di lettura riassuntivo che tutto calmi e stabilizzi, dando privilegio ad
un nome che dia titolo all’abbandono, senso al rimorso di lasciare e carica per
nuovamente cominciare altrove.
I propositi iniziali, per non diventare
fonte di frustrante impotenza, vanno posti e perseguiti con la serena
consapevolezza che il Tempo e la strada da percorre sulla lastra, influiranno
sulla loro teoretica chiarezza. Tempo del lavoro ed il lavoro del Tempo,
apriranno imprevedibili sviluppi che - del proposito iniziale - lasceranno
intatto solo la spinta ideale, non i freddi e inumani condizionamenti.
Marzo, 1992
Il
titolo da destinare al lavoro sorge alla mia attenzione evocato dalle tracce
presenti sulla lastra e dalle prove di stato. Non a lavoro concluso, ma nella
fase dove cessa la formazione generativa ed accrescitiva dell’immagine: un po’
come avviene quando, al termine della gravidanza, devi scegliere il nome da
dare al figliolo in arrivo.
Sono le organizzazioni segniche che
scavo e che cerco di organizzare e articolare secondo i ritmi giornalieri e la
progressiva saturazione della superficie disponibile, a consentirmi di vedere
emergere il senso preponderante che mi indirizza alla titolazione.
Non
avendo l’intenzione di procedere ad un lavoro a “programma” o di dare corso ad
un esecutivo; non avendo, in altri termini, temi da sviluppare e immagini di
partenza da tradurre, ma solo segni nella loro oggettiva evidenza, non ho
titolo preordinato, ma un ritmo giornaliero.
Le tracce le eseguo per necessità di
scaricare energie; al soddisfacimento di quel sensuale appagamento che, credo,
finisce sempre col determinarsi in chi opera con continuità d’uso con strumenti
e materiali. Le tracce le organizzo mosso da istinto articolatorio, alla
ricerca di accordi e di brani che diano inizio ad un movimento. Raggiunta
questa fase, anche in aree separate della lastra, la titolazione compare vaga,
sorgendo da queste spesso in termini tra loro incompatibili, o, al più,
indicando un ambito generico di significato. Proseguendo nel lavoro giunge il
tempo in cui, quanto scavato, finisce per non consentire più altro segno che
non serva a confermare un nome, a rafforzare un senso, a rivelare una scelta:
compare così il titolo.
E
come nel passeggiare insorgono, ad una certa ora, esigenze pratiche riferite ai
tempi e ai modi del rientro, qui altre impongono di tornare, di riemergere alla
dimensione unitaria della superficie: il titolo acquisisce funzione di guida e
di riferimento nel raccordare e cucire assieme quanto scavato nel tempo; nel
riclassificare e nel giustificare, scavando ancora, per chiudere l’esperienza.
Quest’ultima
fase compiuta sulla lastra, costituisce una sorta di consuntivo su
un’esperienza più o meno lunga, frazionata ed eterogenea nei tratti e più o
meno soddisfacente, ma tale sempre da consentire di ricominciare altrove.
Il titolo è il nome che dà senso
all’abandono per compiere altro itinerario. Costituisce una sintesi ed un
ausilio, anche mnemonico, che condensa l’indicazione del luogo e del vissuto
della tappa sulla via del viaggio in corso.
Febbraio, 1995
Autopresentazione mostra collettiva “Luoghi, Una Generazione di Artisti Torinesi”; Amici della Civica Galleria d’arte Contemporanea di Torre Pellice 1995.
Doveroso per me, nato a Torino nel
1952, nominare i “padri”: Francesco
Casorati, Mauro Chessa, Giacomo Soffiantino, Enrico Paolucci, Gino Gorza,
Sergio Saroni, Mario Davico, Mario Calandri, Francesco Franco, Nino Aimone,
fonti di formazione ed esperienza, non solo specifiche, al Liceo e
all’Accademia. Educazione rientrata in circolo dall’altra parte della cattedra
e che, oramai da vent’anni, costituisce ruolo importante anche al di fuori del
servizio.
Di
fatto i circa quarantamila chilometri percorsi per anni, pendolando tra lavoro
e residenza, sfrondano definitivamente tutte le idiosincrasie, i dubbi e
finanche le insicurezze sul come orientarsi e sulla confusione con la quale,
fresco di studi, mi trovavo ad operare. L’esigenza di lavorare, testimoniandomi
anche attraverso tracce da lasciare su un supporto, ha trovato,
paradossalmente, le migliori condizioni proprio, quando il tempo era meno
disponibile.
Fine della gioventù e, dal 1971 al 1986
occasioni espositive soprattutto in sedi pubbliche e dall’istituzione
patrocinate nella Regione, ma anche a Glasgow, Colonia, Madrid con disegni ad
inchiostro e penna.
Il
1986 è anno di malattia e di paura, ma anche di guarigione e speranza; anno ove
gli affetti e l’operare trovano più profondi e vitali agganci; anno della prima
personale, ancora con disegni; anno del ritorno all’incisione che, dal
successivo, costituirà esclusiva tecnica di lavoro e che troverà riconoscimento
internazionale replicato nel 1990; anno che inizia il rapporto con Franco
Masoero: amico, stampatore, gallerista, editore e mentore che, correndo i suoi
rischi, edita nel 1989 una monografia ed inizia a presentare i miei bulini in
ogni occasione e sede con tenace ed irriducibile fiducia: dal Salone del Libro
di Torino al Diplo Spring Art Book Fair di Firenze, dalla Carta dell’Artista a
Parole nel Tempo di Belgioioso, dal IV° Salon International de l’Estampe
Contemporaine di Elancourt a Saga 95 di Parigi, e, ancora, Carte d’Arte a
Ferrara Fiere, Habitat alla Galleria Estense di Ferrara, Arte Fiera ’95 a
Bologna, Le Edizioni Masoero alla Biblioteca dei Frati a Lugano e alla
Biblioteca Comunale di Palazzo Sormani a Milano. Decennio ricco di occasioni
espositive in manifestazioni internazionali a Vico d’Elsa, Budapest, Biella,
Cracovia, Katowice, Varna e nazionali a Roma, Acqui Terme, Bagnacavallo.
Decennio
da incisore che va concludendosi e che mi trova, come sempre, a raggranellare
tutto il tempo disponibile da dedicare al bulino con lo scopo fondamentale di
soddisfare l’esigenza insopprimibile di lasciare segni: tracce che
costituiscono il segno del mio tempo, del trascorrere l’esistenza.
Marzo, 1995
Realizzando da studente, per otto anni, esercitazioni grafico-pittoriche condotte su modelli e, dal 1975, coinvolgendo gli allievi sostanzialmente sulle stesse cose, ho via via maturato la consapevolezza ed il dovere che quest’impegno scolastico, nonostante tutto, finisce con l’essere parte di me: come operatore di un processo d’acquisizione e di trasmissione di cultura figurativa che, con metodi e tecniche sostanzialmente immutate da secoli, va ripetendosi nell’offerta, che potrebbe titolarsi nel “ così s’apprende a disegnare“ e nel “così si disegna “. Processo di conoscenza che nel modello fisico di riferimento, visibile e misurabile, ha il termine comune attraverso il quale esso si acquisisce e si realizza.
Affermando
che la scuola non ha come obiettivo quello di sfornare artisti, ma individui
che hanno acquisito abilità di traduzione e l’uso di tecniche e di strumenti
propri e specifici all’arte, e che la “partita” va ad iniziare con l’esaurimento
del periodo di esercitazione scolastica - quando queste abilità, che ti trovi
tra le mani, devi giocartele in autonomia - sono cosciente che molto del
condizionamento scolastico rimane, perché costituisce, confortato dai risultati
riscontrati tra le mura della scuola, quello che meglio si sa fare.
Terminati
gli anni dove in ogni caso, alla fin fine, anche l’alibi dei programmi
ministeriali giustifica di per se la “copia dal vero”, (definizione infelice,
ma indicativa della cultura che la ha formulata e da accettare solo se si
presuppone l’esistenza assurda de la “copia dal falso”), la contraddizione va
affrontata, trovandoti libero e solo a dover gestire il desiderio e la
necessità di operare in ambito “artistico”.
L’arte
e l’operare dell’artista provocano poi reazioni che perturbano il tranquillo
tran tran scolastico, dimostrandoti dell’uso alternativo che è possibile
tentare di tali elementi linguistici e generando dubbi e riflessioni sulla
necessità di operare su posizioni giudicate passatiste ed ormai inattuali e la
carica per tentare il rischio dell’ignoto.
Non
svolgendo il tuo operare secondo le fasi di un tempo che, dal committente alla
commissione, predefiniva tecnica, soggetto, dimensioni e finanche la
collocazione del tuo lavoro, finisci a dover lavorare come committente di te
stesso, col gravoso compito, soprattutto psicologico, di amministrare una gran
libertà di scelta operativa.
Su
di essa può agire con maggior profitto l’esercizio di libertà
dell’autocommittente, senza i laccioli della ricerca di un “soggetto” da cui
partire, come avveniva a scuola.
La
ricerca dei modi e dei mezzi d’espressione dell’arte hanno sempre a che fare
con un’oscillazione tra metodo-mestiere,
d’origine scolastica, ed esercizio di
libertà, che agisce sulla maturazione successiva: che è poi la conquista di
un margine d’autonomia dagli stilemi e dai riti della scuola, nel tentativo di
lasciare tracce nella ricerca della definizione della personalità.
Il
condizionamento d’origine scolastica e ambientale, frutto di ex insegnanti e
colleghi che stimo e che hanno proseguito la strada della resa illusionistica,
raggiungendo livelli “inarrivabili” per mestiere e abilità, si è verificato in
tutti questi anni e finisce sempre con l’interagire, stante la comune
formazione e la contiguità ambientale in cui insieme si opera.
In
altri termini sono molti tra colleghi ed artisti che, con il loro lavorare,
evidenziano una scelta che parte con l’obiettivo, dichiarato ed esibito, di
riprodurre, spesso anche un’immagine fotografica. Supportati da un’abilità e da
un’esperienza tecnica specializzata, realizzano la loro “libertà” nella scelta
preventiva del ”soggetto”, rimanendo, per il tempo dell’esecuzione,
condizionati ad un’immagine già presente e di riferimento, che occorre
tradurre: proseguono, in tal maniera, l’esperienza iniziata a scuola per
elaborati che ora hanno, per sensibilità, raffinatezza ed abilità addestrata,
caratteristiche professionali.
Un’educazione
pluriennale di questo tipo educa a tradurre in modo “giusto”, verificabile,
quel che vedi.
Questo
modo di esercitarsi consente però anche la formazione di un’esperienza che
prescinde dal soggetto. Rapporti e proporzioni, contrasti chiaroscurali, tagli
compositivi, gamme tonali, tessiture grafiche (per non parlare del colore)
costituiscono gli elementi strutturali d’ogni linguaggio figurativo, bagaglio
indispensabile per esercitare in campo progettuale.
In
questi anni post-scolastici, concentrato sull’articolazione degli elementi
grafici, non ho dato importanza alla necessità di realizzare un’immagine
preordinata oltreché nel nome anche nel taglio compositivo, in quello
luministico, ma questa l’ho lasciata emergere, leggendo, con calma e a stesura
avvenuta, l’insieme delle articolazioni grafiche, usate come stimolo, finanche
nell’attribuzione del nome (del titolo).
Il
mio “grado di libertà” agisce come elemento primario, guidando l’agire sulla
superficie. Non ho soggetto, né orientamento del supporto, né composizione o
studi preparatori, ma segni, loro articolazioni, e i ritmi di stesura che,
giornalmente, riesco ad impostare e a condurre.
Le
mie “abilità” non sono al servizio del
soggetto, ma, viceversa, nel recuperarlo
da un’articolazione ritmica di segni.
Certo
è che i due mondi sono confinanti, almeno in fase propositiva. Possono esserlo
perché ampia è la zona psicoperativa comune: la conoscenza di una foglia, ad
esempio, può generare il bisogno e la volontà di rappresentarla, magari
utilizzando tecniche che meccanicamente ne permettano l’impronta o altre che ne
riproducano la microtessitura segnica. Risolti i problemi di conservazione
dello stato tissutale della foglia e del mantenimento della sua condizione
chiaroscurale, è possibile avviarne la traduzione; ma, viceversa, é possibile
arrivare altrimenti alla foglia, operando “segni
fini a se stessi”, senza la presenza fisica della foglia, che possono poi
stimolare e/o condurre alla lettura del significato foglia, attraverso un richiamo
mnemonico (riproduzione mentale) della preesistente e comune conoscenza della
foglia.
Nel
primo caso l’immagine è già presente e va realizzata con autocontrollo e
metodo, tutto orientato sull’obiettivo visibile e da centrare, possibilmente
senza errore.
Nel
secondo l’immagine da perseguire non esiste e va scoperta. Non è possibile
adottare alcun piano di lavoro teso ad una sua realizzazione, ma applicare
procedure di autocontrollo che seguono, senza rigidità, le fasi ritmiche e
naturali della sua messa in opera, del suo sviluppo e del suo esaurimento.
Nulla è da sacrificare ad un traguardo inesistente. La metodologia di lavoro si
conforma alla condizione psicofisica ed investe superfici del supporto non
necessariamente impostate a priori, per un programma di lavoro aperto, teso a
realizzare un obiettivo autorganizzantesi. Il lavorare ha termine, quando - tra
le immagini possibili - una si rivela con maggiore forza, non, quando è
raggiunta l’immagine scelta in partenza.
La
componente culturale e ideologica è decisiva nella scelta. Accingersi ad una
traduzione, dopo aver coinvolto tempo ed energie nella ricerca del testo
(immagine) da tradurre, indirizza ad un obiettivo prefissato e, necessariamente,
spegne ogni empito di libertà operativa, costringendo l’operatore ad un feroce
autocontrollo che deve guidare senza scarti all’obiettivo, applicando “tabelle
di marcia” collaudate e funzionali allo scopo.
Questo
lo considero “lavoro”: nel senso di mestiere che, come tale, non esenta dalle
componenti stressanti, che sempre genera il dover operare senza possibilità di
scarti.
Operare
senza meta preordinata, tracciare elementi segnici che necessariamente non
dovranno, da programma, “stare per”; organizzare superfici senza che, fissato,
debba esistere un “sopra-sotto”, un “alto-basso”, un “chiaro-scuro”, un centro
attenzionale, consente non di “lavorare”, ma di svolgere una “attività”, di
agire senza temere “l’errore”, e di accogliere, con maggiore rassegnazione,
anche segni “accidentali” che nessun autocontrollo garantisce di evitare.
Al
vantaggio offerto dalla possibilità di rispondere prontamente, puntualmente e
con professionalità a richieste specifiche della committenza, dal formato alla
tecnica, dal soggetto al taglio compositivo; alla possibilità, quindi, di
permettere un’agevole risposta a richieste di mercato con un’offerta “su misura”, si oppone la difficoltà di
gestire la necessità di lavoro in assenza di committenze. L’abitudine alla
rendita da lavoro professionale e l’organizzazione stessa dello studio,
impongono un fare che potrebbe inaridirsi o indirizzarsi altrimenti, se la
committenza diventasse sporadica.
Raramente,
poi, capitano committenze illuminate che, per stima e rispetto della libertà
creativa dell’artista, concedono “carta bianca”. La committenza spesso presenta
necessità encomiastica, celebrativa e documentaria, per scadenze ed anniversari
che, rivolgendosi al passato, alle proprie origini, meglio accolgono - quando
non pretendono - forme d’espressione collaudate, nel solco di una tradizione
che non comporti rischi di novità, che potrebbero essere intese in
contraddizione alle loro necessità.
In
sintonia con questa entra la cultura dell’operatore che, spesso, iniziando per
motivi di studio a lavorare “alla maniera di...”, finisce con l’entrare in un
circolo vizioso che, portandolo all’emulazione e poi al desiderio - se non di
superare il modello, di farsene vivente operativo testimone - lo ferma su
posizioni storicamente e linguisticamente definite, e perciò, di per sé,
conservatrici nei soggetti e nei modi di rappresentarli. Gli esempi
preponderanti di riferimento, negli operatori scolastici ed artistici che mi
circondano, non superano, per la calcografia, con le scarse eccezioni, il 1800
risultando, al confronto, ancora rivoluzionario un Morandi e dissacranti certe
pagine di Bartolini!
POLIFILO, 2010. Bulino su Plexiglas, 380 x 260 |
Ai problemi economici, acuiti dalla difficoltà di accettare ed adottare un’organizzazione di lavoro che preveda immagini da tradurre, per esecuzioni in ogni caso appetibili e ben inserite nel solco di una tradizione percettiva - che, nell’abilità della restituzione dell’evidenza della immagine, trova maggior numero di possibilità di diffusione - s’oppone maggiore possibilità di indirizzare la necessità di attività nel campo della ricerca e del piacere, ove l’operatore agisce senza stressanti condizionamenti.
I
condizionamenti, di chi opera intorno, emergono indesiderati nel lavoro; condizionamenti
non tanto formali e stilistici, quanto legati alla forte illusorietà di opere
che mostre e cataloghi presentano nell’ambito della calcografia Tutto ciò è
verificabile con maggiore evidenza che in altre discipline, anche per il ruolo
marginale che tale tecnica ha avuto nelle avanguardie storiche e per l’uso
estemporaneo che molti ne fanno. Ruolo marginale, forse legato all’originale
funzione della tecnica calcografica, che appunto nella riproduzione ha avuto
ruolo primario e che potrebbe essere indicativo nell’uso, così sviluppato, che
ancora conserva oggi.
All’originale
funzione della calcografia, - in passato strumento tecnico all’avanguardia
nella necessità di dare riproduzione ed illustrazione e poi superato dal
progresso tecnologico, che via via ha sempre più reso veloce, precisa e
conveniente questa funzione con lo sviluppo di strumenti meccanici ed
elettronici - rimane l’odierna, diffusa possibilità d’esibizione di una grande
abilità tecnica.
Occorre
elaborare capacità e strategie che determinano quell’isolamento necessario ad
avviare e mantenere, per il lungo periodo che mi richiede un bulino, la mente
sgombra da tali illusorietà, che finiscono, altrimenti, con l’interagire con il
mio auspicato desiderio di serenità operativa e di ricerca. Sono necessari
grandi equilibrismi perché, non dovendo esserci, da parte di alcuno, la
presunzione di essere nel giusto, non soccorre in aiuto, nel cercare soluzione
al bisogno, la possibilità di risolvere la questione bollando, le cause di tale
condizionamento, in modo radicale.
“Giusto vs sbagliato” non è manicheismo
utilizzabile, stante che l’arte è l’universo
dei possibili e che il reale è un
incidente, un caso del possibile.
Certo
è che il possibile di molti è ben radicato in ambiti di potere e di mercato,
che tendono a non condividere tale universo e pretendono - spesso riuscendoci -
di dare ad esso un centro di controllo, dal quale, in tanti modi, pilotarne
l’espansione (o la contrazione ?) con intenti colonizzatori nella gestione
d’ogni risorsa.
Maggio, 1997
Il trascorrere del tempo comporta svolte che possono mutare l’organizzazione dello spazio in cui si opera. Spazio relazionale che varia per rapporti che si sospendono e per altri che vanno ad iniziare. Spazio fisico che ridimensiona i metri cubi in cui vivere, incidere e stampare matrici. Questo scenario, per altri versi comune un po’ a tutti, tratteggia forse il <<normale>> suo svolgersi ed impone <<normali>> ri-adeguamenti e ri-schieramenti, alla ricerca di necessari ri-equilibri operativi.
A
tale fatale mutare, la mia identità ricerca continui adeguamenti, provando a
resistere allo sterile fatalismo. Identità fatta in gran parte di segni scavati
che, per circa vent’anni, ho ritrovato sulla matrice prodotti dallo scavo e
calcograficamente stampati sulla carta.
Ora
la necessità ridefinisce il segno a cominciare dall’azione fisica che lo
produce. Ciò che il bulino incide non può più essere segno, ma la sua
antitetica, complementare compagna: la superficie risparmiata.
Viaggio
agli antipodi, dal nero al bianco, dalla materia all’antimateria, dal positivo
al negativo, dalla figura allo sfondo, dalla polarità all’antipolarità, dal
maschile al femminile. Come catodo-anodo, latitudine-longitudine,
settentrione-meridione, oriente-occidente, boreale-australe, ascissa-ordinata,
altre complementarietà direttamente accompagnano l’adeguamento che mi
verificano lo specchio e la carta d’identità: castano-canuto,
allievo-insegnante, celibe-coniugato, figlio-padre, normovedente-presbite (per
ora).
L’essere
è allora un’entità tratteggiata temporalmente che, come in ogni viaggio che
aspira all’orientamento e alla traccia, può solo percorrersi lungo una sfera ed
una serie di rapporti diametrali, ove il sole ed il segno, a volte, sorgono dal
mare-matrice, altre vi tramontano. Altre ancora generano veglia operosa in sua
mancanza e riposo-assenza in sua ininterrotta presenza.
Come
il caldo estivo della natività dicembrina ed il freddo dell’assunzione
agostana, il segno degli antipodi, deve cambiare rapporto con il contesto
ambientale.
Mi
ritrovo per necessità e conseguente scelta operativa nell’ambito tecnico e
mentale della stampa alta, impropriamente della xilografia. Perché é anche già
risultato che non è precisamente definibile, nell’ambito della grafica incisa,
il nome che definisce la tecnica esecutiva. Potrebbe coniarsi, se già non lo si
è fatto, plexigrafia (sull’esempio di linoleumgrafia, dal nome commerciale del
materiale usato) o, più in generale, per evitare l’uso di marchi di fabbrica
che renderebbero imprecisa l’indicazione con l’uso del prodotto di una altra
ditta, plastigrafie come termine volgare, oppure, con termine tecnologicamente
corretto resinografie o, più specificamente metacrilatografie.
Nell’altro
emisfero la vita e gli strumenti per viverla non cambiano; a patto di riuscire
a modificare l’abituale status mentale che mi permetta di governare i brividi e
i comportamenti maturati dall’altra parte che, istintivamente, potrebbero
ancora ripresentarsi a guidarmi e portare ad habitus fuori stagione.
Dalla
mia confortano le indicazioni storiche, perché l’ambito in cui mi trovo non è
inesplorato, ma il luogo d’origine della grafica incisa che poi, alla ricerca
di nuove possibilità colonizzò altri territori, evolvendo agli antipodi.
L’alternarsi
delle possibilità che impongono di indossare i panni ed il ruolo del
<<nativo>>, comportano l’elaborazione nella nuova collocazione, di
superare la regressione che potrebbe sorgere abbracciando i motivi che hanno
segnato storicamente il successo della tecnica calcografica sul quella
xilografica, accettando la resa di molti al segno inciso, alla
<<modernità>> della diretta determinazione della traccia.
Il
termine modernità ha comunque cessato, dai primi del ‘900, di avere gran
pertinenza nell’ambito incisorio, avendo, anche la calcografia, perso
progressivamente appeal nell’ambito della modernità, che ha sempre puntato a
sviluppare tecniche e tecnologie grafiche sempre più veloci, colorate,
ricettive ed accoglienti.
Cosciente
dunque che tale isolamento è proprio di tutta la grafica incisa, penso mi
rimangano maggiori possibilità di ricerca quanto maggiore può apparire
scarsamente appetibile il contesto tecnico-operativo.
Rifiutando,
in scarsa, ma buona compagnia, la facile e banale identificazione tra modernità
– strumentazione e tecnica della modernità – conscio che non siano la scelta e
l’uso dello strumento a connotarla, ma solo la possibilità di lasciare tracce
che trovino, tra i contemporanei, possibilità di lettura ed integrazione –
rimango determinato nella convinzione positiva dell’apertura a ogni possibilità
operativa.
Maggio, 2005
LA RONDINE DI THOMAS TENTA IL RITORNO, 2013. Bulino su Plexiglas (stampa alta), 380 x 260 |