giovedì 1 novembre 2012

ANDREA DE SIMEIS

DA GRANDE VOGLIO FARE

IL VIAGGIATORE


 
Barche e bastioni. 2012;
acquaforte, maniera zucchero, acquatinta, puntasecca, 150 x 150

Gli altri erano tutti impegnati a ripetere nomi di professioni bellissime e difficili, ed io? Io volevo semplicemente viaggiare. Quando mio padre ruppe questa perfetta e leggera bolla, e mi spiegò che la professione del viaggiatore avrebbe avuto senso solo con un fine, fu necessario mettere uno scopo ai miei viaggi.

Ma poi perché dovevo sottrarre tempo al viaggio per fermarmi e occuparmi di attività collaterali?




«Viaggiare? Per viaggiare basta esistere. Passo di giorno in giorno come di stazione in stazione, nel treno del mio corpo, o del mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze, sui gesti e sui volti, sempre uguali e sempre diversi come in fondo sono i paesaggi.
Se immagino, vedo. Che altro faccio se viaggio? Soltanto l’estrema debolezza dell’immaginazione giustifica che ci si debba muovere per sentire.
“Qualsiasi strada, questa stessa strada di Enterpfuhl, ti porterà in capo al mondo”. Ma il capo del mondo, da quando il mondo si è consumato girandogli attorno, è lo stesso Enterpfuhl da dove si è partiti. In realtà il capo del mondo, come il suo inizio, è il nostro concetto del mondo. E’ in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo, se li creo esistono; se esistono li vedo come vedo gli altri. A che scopo viaggiare? A Madrid, a Berlino, in Persia, in Cina, al Polo; dove sarei se non dentro me stesso e nello stesso genere delle mie sensazioni?
La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò vediamo, ma ciò che siamo.»
Tratto da Il libro dell’inquietudine, Fernando Pessoa.

A dieci anni non avevo fretta di capire che viaggio e scopo fossero talvolta la stessa cosa e che insieme godessero dell’imprevedibile fascino del caso, della serendipità. Occorrevano molti anni ancora, ieri l’altro, per pensare che fare l’artista fosse un buon pretesto per avverare tutte queste eccezionali eventualità: un’ avventura.

“Artista” poi non mi si addice, è un prefisso esornante al quale preferisco grandemente parole del mio lessico dialettale, mesciu, artieri: artigiano sensibile e custode di un mestiere fino, di mano e intelletto, in cui si esprima consapevolmente il proprio stile senza coazioni di firma in calce.


Notte in Valpurga, 2004.
Acquaforte 587 x 475.
Prima incisione realizzata negli anni di Accademia.

 L’università
Nel burrascoso mal di giovinezza dei miei anni universitari, soffrivo il disagio per quell’attesa di una buona sistemazione: quasi plausibili, brillanti aspettative. Insofferente, confessai di voler fare l’artista e anche in questo caso, con clinica pazienza a guisa di paterna comprensione, fui invitato alla ragione: per far l’artista mi sarei dovuto prima assicurare una buona posizione. Avevo di nuovo bisogno di una copertura per occuparmi di quello che volevo fare.
La mia ostinazione cresceva e conseguente-mente ebbe presto una diagnosi: infantilismo, sindrome di Peter Pan. Questa generale apprensione mi procurava una tale ambascia che fu difficile superare banali complessi di relazione con alcuni parenti, amici, donne, orientati innanzitutto verso un futuro di certezza professionale, solidità sociale.

«Quod vitae sectabor iter?»
Poseidippos, 300 a.C.

Io invece naufragavo nel conflitto dei compromessi, tra la vita di necessità del rappresentante, cameriere, grafico part time e una vita appassionata di esperienza e narrazione. Fu a questo punto che trovai il mio timone: il mio maestro di grafica, il mio mentore, Glauco Lendaro Camilles.
Il tempo trascorso insieme curvava sempre all’educazione per la ricerca, all’attenzione, all’ascolto e offriva straordinari e nuovissimi motivi di riflessione. Il superfluo non fu mai così essenziale, la lentezza occasione per l’osservazione di fenomeni quotidiani ma segreti.
Davvero la meraviglia per la maieutica spericolata ed efficace mise definitivamente fine alle teorie congetturali del fare per terzi obiettivi, per ritornare al principio, al mio antico viaggiare per viaggiare. Fui toccato da una sensibilità unica più che rara, destinata a sopravvivere con stupefacente forza: stupore vero che accende e incoraggia all’entusiasmo, al viaggio.
Fui cultore di tecniche dell’incisione per la sua cattedra per ben due anni e attestato con un titolo di merito per aver contribuito a migliorare l’immagine dell’istituzione Accademica.

Scrivo di Lendaro quello che a sua volta questi scrisse del suo maestro: “dire di lui è come parlare del vento, non si sa da dove venga ne dove vada.”
Dal nostro rapporto trassi grande senso e cominciai a distruggere l’habitus, per dirla alla Bordieu, e a chiedermi che cosa realmente volessi.

«Diventa ciò che sei».
Friedrich Wilhelm Nietzsche
Scelsi perciò di vivere in questa bella e imprevedibile periferia, lontano da centralissime città al “caso tuo”, dai centratissimi master e concorsi, graduatorie, corsi di formazione, senza punti e crediti, tessera di partito, parenti buoni, amici, amici di amici. Conclusi brillantemente gli studi in Accademia di Belle Arti con la sola grande aspirazione di diventare un buon incisore, un bravo torcoliere.


Kunigashi , Le Manuel Pratique de la fabrication du papier
testo anastatico e riproduzioni su zinco delle xilografie originali
 La carta
Più che naturale fu appassionarmi di carta, un supporto stampa che restituisse al torchio ogni intenzione grafica, che sopravvivesse al tempo senza compromissioni originali. Divorai testi affascinantissimi e relazioni note e meno di aziende cartarie. Viaggiai in Italia per conoscere grandi studiosi dell’argomento, Franco Mariani, Maurizio Coppedé, e visitai le ultime gualchiere attive. Infine frequentai un corso di introduzione alle tecniche del restauro presso Palazzo Ridolfi Spinelli a Firenze e con grande meraviglia fui invitato a tenere una lezione sulle tecniche di stampa d’arte antica.
Scoprì le grande qualità delle carte orientali, special modo della washi giapponese e mi prefissi l’obiettivo di approfondire l’argomento e infine ripetere per conto mio tutte le fasi di questo paziente lavoro: volevo capire profondamente cosa significasse fare carta, carta della migliore qualità dal Gelso Cinese.
Avevo ormai steso una relazione completa sulle tecniche di manifattura e conoscevo scrupolosamente alcune importanti regole: la qualità della potatura dei rami, tempi e temperature per la lavorazione della cellulosa, le mucillagini naturali per migliorare la feltrazione della fibra sul cascio, procurare al foglio una riserva alcalina, ecc.
 Rubai un piccolo pollone radicale dal Gelso Cinese dell’orto botanico di Firenze e lo accudì maternamente. Non saprei esprimere con quali attese guardassi i primi germogli e quanto smaniassi di fare il primo raccolto. Malgrado l’entusiasmo non sarei stato in grado di mondarlo prima del quinto anno di vita e con questi pruriti aspettare sarebbe significato perdere la ragione. Cercai nel repertorio naturale del mio Salento una pianta della stessa famiglia, le moracee, che avesse innanzitutto simili caratteristiche morfologiche. Con grande stupore osservai che il fico comune rispondeva perfettamente a questi requisiti e si prestasse grandemente alle tecniche di lavorazione orientali. Qui al sud il fico è frugalissimo perciò avevo una risorsa straordinaria e in più inesauribile.

I miei nonni


I miei nonni paterni mi aiutarono. Contagiati dal mio entusiasmo, lavorarono con solerte pazienza, talvolta ripetendo gesti antichi, quasi già noti, con infinita disinvoltura.
Non stupisce il meticoloso mestiere del cartaio gli uomini che hanno lavorato i campi con la giumenta, l’aratro e la pisàra, che hanno esperienze di natura, conoscono le ciclicità vitali delle specie, la maturità sensibile delle cose. Sono uomini abituati al lavoro di terra, di pietra, di corredo, di tempo, infinitamente lungo.
Dialogammo e lavorammo squisitamente per un’intera stagione e infine trassi dal tino otto unici bellissimi fogli: fibra lunga, spera nuvolosa, scarto sordo, naturale candore, profumo di potassa e foglie.
Fu necessario a questo punto sottoporre le mie carte a un esperto: Antonella Brogi, restauratore della carta di fama internazionale. Recensì personalmente il mio lavoro con parole di encomio e grande stima. Non mi sarei più fermato e se inizialmente pensavo che fare carta significasse creare un medium per la stampa, mi corressi: fare carta significava fare carta, una vera occasione di riflessione e approfondimento, della storia e del mio patrimonio.

«Viareggio, 23 aprile 1903

Le opere d’arte sono di un’indicibile solitudine e nulla le può raggiungere poco quanto la critica. Solo l’amore le può abbracciare e tenere ed essere giusto verso di esse. Date ogni volta ragione a voi stesso e al vostro sentimento di contro a ogni simile interpretazione, trattazione o introduzione; se doveste aver torto, la crescita naturale della vostra intima vita vi condurrà lentamente e col tempo a ravvedervi e ad altri avvisi. Lasciate ai vostri giudizi il loro proprio sviluppo indisturbato, che – come ogni progresso – deve venire dall’intimo profondo e non può essere da nulla represso o accelerato. Tutto è portare a termine e poi generare. Lasciar compiersi ogni impressione e ogni germe di un sentimento dentro di sé, nel buio, nell’indicibile, nell’inconscio irraggiungibile alla propria ragione, e attendere con profonda umiltà e pazienza l’ora del parto di una nuova chiarezza: questo solo si chiama vivere da artista: nel comprendere come nel creare.
Qui non si misura il tempo, qui non vale alcun termine e dieci anni son nulla. Essere artisti vuol dire: non calcolare e contare; maturare come l’albero, che non incalza i suoi frutti e sta sereno nelle tempeste di primavera senz’apprensione che l’estate non possa venire. Che l’estate viene. Ma viene solo ai pazienti, che attendono e stanno come se l’eternità giacesse avanti a loro, tanto sono tranquilli e vasti e sgombri d’ogni ansia. Io l’imparo ogni giorno, l’imparo tra dolori, cui sono riconoscente: pazienza è tutto!»
Tratto da Lettere a un giovane poeta, Rainer Maria Rilke

 

Il laboratorio

Acquistai un torchio Bendini 70x100 di seconda mano, una ingombrante pressa per libri molto più vecchia, tre cassettiere di caratteri mobili in piombo, carta Hahnemuhle e Amalfi, vasche e paioli delle più disparate misure, un distillatore di rame, mirette e punte, strumenti per la misurazione, rulli, ecc. Poi in inverno, nelle lunghe passeggiate sulle coste del mio Salento, raccolsi i relitti di legno dei lidi attrezzati per turisti: travi di copertura, murali di sostegno, porte e panche dismesse. Con una sega a nastro, un trapano avvitatore, una levigatrice, stucco, mordente e ceralacca, costruì tutto l’arredamento del mio laboratorio, perfino il telaio di un letto, all’occorrenza divano, comodissima nefelococugia. Accumulai una tale masserizia che fui costretto a chiedere a molti amici la custodia, fino alla mia eventuale sistemazione.
Per caso seppi di due anziane sorelle in lite per la spartizione di una bell’abitazione con giardino in una via centrale del mio paese, Martano. Fino alla soluzione del contenzioso nessuno avrebbe potuto occupare l’immobile e fui perciò gradito ospite per due anni. Trascorsi giornate bellissime all’ombra di una grande pergola e cominciai due ricerche affascinanti da integrare al lavoro della carta: il colore, a mezzo di antiche tecniche tintorie dei filati e la distillazione, con il sistema messo a punto da Avicenna.



Colore, profumo

Sentivo la necessità di offrire nuovi approcci sensibili che stimolassero quel bagaglio individuale, culturale ed esperienziale, controtendente alle fredde simulazioni digitali
dell’ebook e affini.
Realizzai carte cotone in bagni indaco del guado, che ricordano gli umori dei bassissimi cieli del Sud; fogli di paglia, porpora, con la terra ferrosa della cava di bauxite di Otranto, così simili agli intonaci delle case coloniali del Maghreb; bellissimi toni del verde con sali di allume, cremore, foglie di fico e carciofo, ecc.
Confezionai le mie risme in involucri ermetici insieme agli idrolati che estrassi in corrente di vapore. Distillai il timo, la calaminta, l’elicriso, l’origano e sfogliando a ventaglio i miei fascicoli colorati, simulai le sensazioni di una passeggiata nelle incolte campagne, un promemoria marzolino.
Infine rilegai alcuni quaderni di paste cellulosiche e colle di amido commestibili: un vero pasto per librofagi, afflitti da appetiti “diversi” per i quali lettura e metabolismo coincidessero.



Derentò

Giannizzero in Opinga, 2012.
acquaforte, maniera zucchero, ceramolle,
acquatinta, puntasecca, 400 x 293
“L'Hydrus dei greci si arrocca baia vetusta ed incantevole
sul più estremo lembo sud-orientale d'Italia.
Circondata da valli s'innalza con le sue vecchie case bianche oltre le mura poderose che tutt'intorno la racchiudono, quasi rocca classica dell'Ellade”
Grazio Gianfreda; Otranto nella storia; Editrice Salentina, Galatina, 1980.

Otranto sta in molto meno di un rigo, sulle carte. Scritto da sinistra a destra, all’occidentale, sul più estremo est della penisola; sembra allungarsi ad oriente, per una invisibile attrazione.

Da questo punto per secoli si guarda il mare con speranza e paura, e dal mare e si è visti con medesimi sentimenti: queste due prospettive hanno già molto in comune.
Ad un osservatore più scrupoloso, molto da vicino, in senso ortoforico, questi punti parrebbero ponti, premessi gli originali apparentamenti esotici di ogni idruntino.
Ponti di spazio e tempo su cui transitano più o meno pacificamente geni Japigi, Greci, Macedoni, Albanesi, Romani, Ebrei, Bizantini, Goti, Veneti, Longobardi, Francesi, Arabi e Normanni, ecc.
Se ne trae che Otranto sia città plurale che deve alla sua natura di città sul mare, crocevia di razze, la ragione di essere Otranto. Per meglio dire, la città è prova di quali straordinarie opportunità offrano le differenze e quanto le differenze siano sempre opportune. Un luogo di così tante, possibili, libere, armoniche relazioni del caso, non teme il progresso, lo esprime.

Bello! Un posto così bello che perfino Ercole scelse per villeggiare dopo aver ucciso il gigante Leuternino. Proprio quel figliolo di Giove che, in favore al nostro dire, è onoratissimo benedicente degli incontri tra popolazioni diverse.

Ma per defezione di memoria storica, figurarsi quella mitica, siamo tutti presi a simulare un noi generico, pigramente rassicurati da superficiale sentimento campanilistico e di appartenenza. Lococentrici, naupatici, fermi nelle stagnanti acque di questo porto banalità.

Derentò è il titolo dello scartafaccio di disegni, testi e incisioni su carte e cartoni vergati a mano che vado a spiegare; il nome con cui i paesi della Grecìa, , una piccola comunità ellofona al centro del Salento, di cui io stesso sono originario, designavano la vicina Otranto.
Chiara è la prospettiva dalla quale osservo la cittadina, distanza anche temporale, giacché racconto i fatti che la interessano dal 1453 al 1480 (il gran progetto di turchizzazione di Maometto II, dalla conquista di Costantinopoli al sacco di Otranto appena ventisette anni dopo).

Molteplici e determinanti sono i riflessi di quest’arco di storia sulla Grecìa e per me tutti fantasticamente ritrovati: nei racconti di mia nonna, degli anziani del mio paese, nella storia del Gianfreda, Bodini, Corti, De Dominicis, Rina Durante, ecc. Emerge chiaramente nel repertorio degli uomini di questa terra, come nelle sue coste indifendibili, un' ostentata apertura, e insieme una profonda rassegnazione all’eventualità. Si sta come torri normanne, rivolti al mare, con il coraggio della paura, con la pazienza degli ulivi in attesa della buona e della cattiva Sorte.

Derentò definitivamente, senza quel celebrare di pieve per i suoi martiri in ansia di canonizzazioni, è metafora del sud di tanti conflitti, inconcludibili, esposto al burrascoso levantino degli stereotipi, per distrarsi infine dai suoi sofisticatissimi e bellissimi particolarismi, per un’ attrazione al centro, nei progetti totali.

"Che sarà di Otranto? Appunto. Chi difenderà le mura?
Nessuno! Ve li immaginate i turchi sfondare una porta aperta?
Entreranno. Non troveranno una fede da castigare. Si ridurranno a vagabondare per le vie del centro, turisti alla ricerca di quanto avrebbero dovuto fare, perduti a sera tra le inesattezze della loro storia, finchè, scandalizzati dai prezzi, se ne andranno, contravvenendo ai termini della crociera. Una stagione estiva come un'altra."
(C. Bene, 'Nostra Signora Dei Turchi')


Oggi

Il mio attuale laboratorio è anche il luogo in cui vivo, a Galatina. Si tratta di un grande ambiente, una falegnameria dismessa nella vecchia via degli artigiani, ora quartiere signorile appena fuori le mura cinquecentesche. Il locale è poco illuminato, ha un bagno, un piccolo pozzo luce e il fitto economico.
Molte provviste, gialli grappoli di pomodori, caciocavalli, cornetti di peperoncino, mazzetti di mente e origano, sono appese ad una lunga pertica che percorre l’ambiente in tutta la sua lunghezza e fa sembrare il mio locale una di quelle puteche clandestine che vendono generi alimentari all’uscio.
In questo gran bello spazio lavoro con zelo e furore, semmai sia appropriato coniugarli,
e spesso m’immagino di essere in quella fucina dei mastri fabbri ferrai. “Qui il lavoro non è fatica” si legge sulla canna della grande bocca di fuoco dei fratelli Ferrari, mentre il mantice della forgia sbuffa faville. M’immagino così, sudato e ostinato sul ferro, al ritmo del grande maglio e, tra un colpo e l’altro, getto un occhio veloce sulle piccole carte dei miei appunti.

Si sogna come si dice piove.
Non c’è soggetto, c’è solo il verbo.
E il verbo sta qui, poiché viviamo,
poiché sogniamo. Non c’è nessuna
differenza, tra le due attività.
Sognare è essenziale, forse è la sola
cosa reale che ci sia.
Il sogno che cambia, che si sogna
Che si meraviglia di sognare.
Tutto ciò si chiama filosofia,
metafisica, anche poesia.
Tratto da La mia vita appesa ai sogni, Jorge Luis Borges.

Nei particolarismi trovo tutte quelle forme identitarie che esprimono, senza complessità, la ragione originale, forse antropologica, del mio operare. Questo paradiso di cose indispensabili e minute mi risparmia alla costosa competizione dei verticalismi, del vivere veloce e in continuo aggiornamento. Tutto accade in una gradevole sospensione che mi accorda, mi mette in sintonia con me stesso e con gli altri.

Andrea De Simeis

                                 Adunata, 2012.
acquaforte, maniera zucchero, acquatinta, puntasecca 204 x 244
NEL CUORE UNA PROMESSA

Al termine del romanzo No Country for Old man di Colmac Mc Carthy, lo sceriffo vede un abbeveratoio scavato nella dura pietra a colpi di scappello, lungo quasi due metri, largo mezzo e profondo altrettanto, chissà da quanti anni sta lì, e lo sceriffo dice: “Penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopo cena, non so. E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe più di tutte”.


jamoso'mma tavernari, 2012.
acquaforte, maniera zucchero, acquatinta, ceramolle, puntasecca 650 x 550.
Andrea De Simeis una qualche promessa deve averla “dentro al cuore” per farsi carico del lungo, complesso e faticoso processo per realizzare una carta simile alla Whashi ricavandone le fibre dal bianco floema del fico comune.
La usa per le sue stampe, pertanto non è soltanto depositaria di segni e forme, ma quasi si trasfigura da mero supporto a componente dell’atto creativo.
Cosa c’entra questo con l’arte dell’incisione?
Solo chi ha trovato il senso di una rigorosa determinazione può oggi pensare di dedicarsi all’incisione adottandone il linguaggio nella forma più essenziale ed esclusiva: neri segni d’inchiostro su foglio bianco.
Determinazione, pazienza, fatica, silenzio, tempo, profondità… e per ricompensa la qualità, un pensiero, la prossimità al senso delle cose.
È un’impresa di altissima nobiltà, una gesta da cavaliere errante alla difesa di un culto sul punto di scomparire, alla difesa della suprema bellezza di un linguaggio dove i più puri modi aristocratici e popolareschi sono intrecciati con una passione esclusiva.
Lingua salvata al limite che si fa strumento di salvazione per le cose stesse che significa situandole, con la sua forza e la sua purezza, su un piano dove nulla può più contaminarle.

Cavaliere rampante, 2009.
acquaforte, maniera allo zucchero e puntasecca, 400 x 400
“Premio Acqui Giovani” alla X Biennale di Acqui Terme.

Cavalieri in antiche armature con le loro cavalcature bardate… a quali scontri si preparano, quali battaglie sono pronti a combattere i cavalieri di Andrea De Simeis?
Il cavaliere a celata abbassata arresta netto il suo cavallo e il nostro respiro.
La guerra non è né santa né giusta, né di liberazione, né spacciata per “missione di pace”, altri sono gli scontri che preoccupano i cavalieri dell’armata De Simeis.
Sono gli scontri che preoccupano tutti noi: indossiamo tutti una sorta di armatura psicologica per affrontare le difficoltà lavorative e della vita quotidiana, è il sentimento comune di un destino che si percepisce ineluttabile, la solitudine spoglia del presente si arma contro le insidie della quotidianità che assume natura epica, perché il viaggiare del cavaliere tra le illusioni e i duelli è, lo sappiamo, un itinerario della mente.


Il Gedeone Cristiano Giorgio Castriota Skanderberg, Signore degli Schipetari, 2012.
acquaforte, maniera zucchero, acquatinta, 379 x 398.

Il primo principio di una teoria credo sia l’ostinazione su alcuni temi. Questa ostinazione è il segno più evidente della coerenza autobiografica.
Questa ostinazione permette il dispiegamento di un’esperienza che matura nel tempo, permanendo comunque inalterata la riconoscibilità degli inizi, continuamente, ossessivamente sperimentarti per ripetizione e per variazione.
Non conosco poesia senza una precisa radice, una fedeltà, un ritorno.
Da qualche anno Andrea De Simeis è impegnato in un ambizioso e complesso progetto intitolato Derentò che ha già illustrato nel suo scritto autobiografico.
Sembra quasi che i fatti storici che sono all’origine di Derentò o attendessero Andrea De Simeis per essere tradotti in immagini. È certo che i segni grafici adottati da Andrea per raffigurare i soggetti della sua monografia risultano particolarmente congeniali a restituire le suggestioni di quei lontani avvenimenti che attualizzandosi si prestano a più ampie letture.
Nelle incisioni di De Simeis si sente pulsare l’anima del tempo, c’è un fluire impetuoso di sentimenti e di passioni. Si delinea un universo "epico ed etnico",  fortemente connotato antropologicamente. Le graniture di acquatinta, le profonde fenditure a puntasecca, i segni di acquaforte e vernice molle evocano qualcosa di terroso: corpi impastati di argilla e sale.



Le Stiare, 2012.
acquaforte, maniera zucchero, acquatinta, ceramolle, puntasecca, 377 x 245
le Stiare sono le streghe del grico talentino; i segni sopra le teste delle due Stiare, sono i più comuni identificativi sulle villose schiene delle capre del Salento.


Testa di Antonio Grimaldo Pezzulla, cimatore di panni, 2012.
acquaforte, maniera zucchero, acquatinta, ceramolle, puntasecca 244 x 224.

Le rughe sui volti delle Stiare, o su quello esangue del decollato “Antonio Grimaldo Pezzulla, cimatore di panni”, sono come solchi scavati, stagione dopo stagione, dall’aratro dell’esistenza. C’è la dimestichezza con pratiche misteriche, la concezione di una realtà più enigmatica e oscura delle apparenze razionali.
Per certi aspetti il riferimento figurativo che mi viene alla mente va alla perduta Battaglia d’Anghiari di Leonardo, gli studi soprattutto anche se la ricerca espressiva sui volti dei combattenti in De Simeis si scioglie nell’anonimato individuale, ma rinunciando all’identità cavallo e cavaliere appaiono fondersi in un unico essere, quasi si trattasse di un “regresso” alla più antica figura mitologica del centauro.

Don Fernando d'Aragona Trastàmara, 2012.
acquaforte, maniera zucchero, acquatinta, puntasecca 494 x 446

Usciamo dall’ambito interpretativo dei soggetti e affrontiamo la specificità delle incisioni, quindi la composizione e il segno.
I rigidi margini regolari della lastra non condizionano la composizione dell’immagine che risulta libera e svincolata anche da ogni contesto di spazio e di tempo.
Poesia e bellezza, inseparabili e indipendenti. Sentire la giustezza compositiva di un’immagine molto prima di averne compreso il significato, grazie a quel puro segno che è solo del più nobile stile.
Le immagini non hanno nulla di accattivante, sono lontane da certa ruffiana gradevolezza estetizzante, tutt’altro che consolatorie, inquietano e turbano.
La cifra stilistica si riconosce nella tessitura di un segno che sembra schizzare dall’immagine mentre la costruisce, schegge acuminate che trafiggono le figure per effetto di malia perché la forma deve distruggersi da sé, ma solo nel momento in cui si compie perfettamente.
È un fitto dardeggiare di luce zenitale in un mezzogiorno salentino.
Il segno di Andrea De Simeis decompone la materia fisica dell’essere e la natura fenomenica della realtà, dissolvendone la sostanza nel pulviscolo incorporeo della memoria. Sublimando i numerosi “stati” necessari a rendere un’immagine nella sintesi unitaria di essenziali e imprescindibili segni incisi, ci restituisce l’evanescenza dell’essere e delle cose in una materia fragile, perché trascendente e spirituale.


Antonio Capodiferro, 2012.
acquaforte, maniera zucchero, acquatinta, puntasecca 500 x 380.

Tra gli artisti che conosco Andrea De Simeis è quello che più di altri accompagna il proprio lavoro con una riflessione teorica, motivando le scelte formali e di contenuto, pertanto mi sembra opportuno chiudere il cerchio, ridando la parola all’artista che l’aveva aperto, con un estratto da una e-mail che mi ha inviato:«… pur essendo un figurativo, abiuro la compiutezza finalizzata alla comprensione a vantaggio dell'interpretazione, e trovo di grande effetto quel nero caliginoso che fende a puntasecca alcune aree immagine. In questi spazi di eccellente profondità, che l'occhio schiva per cercare oltre, mi eccita la vertiginosa paura del "sottinteso", la forza del "non detto"».
Come capita agli artisti più sensibili e sinceri Andrea teme il rischio che la necessità di coerenza e riconoscibilità stilistica degeneri nella sclerosi della ripetitività di una soluzione formale, all’opposto l’altra trappola da evitare è esasperare un eclettismo che annulli l’identità. Il solo modo per evolversi che il lavoro di ogni artista può avere, ricavando dal lavoro già fatto nuove illuminazioni, assomiglia a quello con cui il Barone di Münchhausen raggiungeva la luna, ovvero tagliando la corda sotto di sé per allungarla di sopra.
Clemente Del Buono