lunedì 22 settembre 2014

IL TEMPO NELL'ARTE *

Signore e Signori,

Vi è senza dubbio, in questa esposizione degli Indipendenti, dove ci troviamo, più di un'opera che durerà, che sarà eterna o quanto meno, secondo l'espressione consacrata, che «si farà beffe dell'insulto del tempo». Che resti tra noi, l'espressione consacrata non è eccellente, e non si vede come un quadro possa piegarsi dal ridere fino a far saltare la tela e rompere i lacci al fine di prolungare la propria durata. Comunque sia, far sì che la propria opera sia fuori dal tempo, credo che questa sia l'ambizione dell'artista, che si tratti di un pittore, di un letterato, di uno scultore, di un architetto o di un musicista. Ora, poiché per le sue creazioni l'arte non ha migliore attestazione di merito se non l'affrancarsi dal tempo, forse non è ozioso esaminare quale sia il rapporto che il tempo intrattiene con l'arte.
Tutte le arti attingono al tempo la materia che trattano. Come è noto, vi è una sola differenza tra le arti plastiche - pittura, scultura - e la letteratura, almeno secondo quanto insegnano i professori di filosofia. Si tratta del fatto che la letteratura ha l'obbligo di far sfilare in successione e uno per uno gli oggetti che descrive: se un romanziere intende parlare, ad esempio, di un uomo, dì una pecora e di un albero, non li presenterà simultaneamente a lettore, bensì uno dopo l'altro, ovvero quest'uomo, quest'albero e questa pecora. Per converso, in un quadro lo spettatore abbraccia con un colpo d'occhio un numero di oggetti simultanei tanto grande quanto al pittore piacque metterne insieme.
Pertanto il quadro o la statua colgono e fissano un momento della durata. Scelgono un movimento tra i movimenti, naturalmente il più plastico, lo immobilizzano e lo circondano di accessori che erano, nel corso del gesto, alla portata del gesto stesso, e lo completavano. La leggenda della moglie di Loth non è altro, secondo ogni evidenza, che l'invenzione della prima statua. L'Eterno ha operato, in quella circostanza, come un vero artista: ha scelto, per fissarla, la posa che avrebbe svelato l'emozione più intensa, dunque la più estetica: quella della donna divorata dalla curiosità, da un timido desiderio e dalla disobbedienza e dal terrore improvviso di fronte all'incendio di Gomorra. Allora l'Eterno ha detto: «Attenzione, non muovetevi!».
Se la statua di sale non si è conservata per arricchire i musei moderni, molte scene di epoche trascorse, più o meno altrettanto antiche quanto quest'avventura della moglie di Loth, hanno fornito temi all'estro dei pittori o dei romanzieri. La ricostruzione storica è sempre stata motivo di seduzione, come pretesto per delle opere d'arte. Il colore particolare o la forma bizzarra dei gioielli antichi affascinano il pittore, come le parole delle età scomparse sembrano allo scrittore tanto più sonore ed espressive quanto più risultano incomprensibili, perfino a lui. Egli interpreta che il loro senso si è scurito nella notte dei tempi.
Alla questione della ricostruzione o, come dicono alcuni, della verità storica, mi sembra che si possa rispondere con grande semplicità, basta ricordare un quadro noto e ammirevole, La strage degli Innocenti di Brueghel il Vecchio.

Brueghel il Vecchio, La Strage degli Innocenti, olio su tavola 109,2 x 154,9. Royal Collection, Hapton Court.
Di questo quadro, l'originale di trova a Vienna, ma se ne può ammirare una copia meticolosa di Brueghel il Giovane al museo di Bruxelles. La scena rappresentata si svolge, com'è noto, al tempo di Erode, all'incirca duemila anni or sono. L'artista non si è dato pena di cercare quali fossero le divise e i dettagli delle divise dei soldati di Erode duemila anni or sono. Ha semplicemente illustrato il fatto: una soldataglia che massacra dei bambini. Come sfondo, non ha cercato altro che le strade di una città fiamminga che conosce bene; con una sublime mancanza di vergogna, ha steso sulla sua tela un cielo brumoso del nord e un tappeto di neve. Mercenari, con la loro lama, infilzano al suolo freddo i marmocchi riversi. Madri e padri col capo chino supplicano il borgomastro, che incede a cavallo circondato da alabardieri. Certi militari che hanno lavorato abbastanza o vogliono ritemprarsi un po', bevono seduti su panche, davanti a una locanda. Il terrore considerevole di un marmocchio in fasce, brutalmente strappato alla madre, lascia tracce sulla neve. Queste tracce orrorose riescono gioiose allo spettatore, perché siamo al paese delle kermesse. Una donna ha trovato rifugio in una casa insieme ai suoi figli, e i soldati sfondano la porta con il calcio dei loro moschetti.
Moschetti o fucili al tempo di Erode, ebbene, non mi pare che vi siano inconvenienti particolari. Brueghel ha rappresentato lo sfondamento di una porta con il calcio di un fucile, perché ha ritenuto che il calcio di un fucile fosse lo strumento più adatto alla bisogna. I soldati di Erode non avevano fucili? Che importa, avrebbero dovuto averne. In un caso simile, poiché siamo di fronte al genio del pittore, è il pittore che ha ragione.
Allo stesso modo, gli antichi incisori su legno rappresentano cannoni all'assedio di Troia: forse che le loro opere guadagnerebbero di molto se vi avessero rappresentato della catapulte? I pittori gotici raffigurano, nelle loro crocifissioni, ai piedi della Croce, nelle sembianze delle Sante Donne o degli Apostoli, i committenti del quadro, loro contemporanei, e i notabili della città si compiacciono della rassomiglianza dei loro amici. Questo non ha forse lo stesso valore del tentativo di avventurarsi a ricostruire la fisionomia dei personaggi della leggenda sacra che non hanno mai visto?
Non v'è dubbio, per concludere in merito al quadro di Brueghel, che ogni pittore moderno, beninteso se il suo genio è pari a quello dell'antico maestro, potrebbe realizzare il medesimo orrore tragico supponendo una Strage degli Innocenti ai giorni nostri e ovunque gli piaccia, sulla Place de l'Opera, ad esempio. Qualche brigata centrale non sarebbe forse più malvagia, o meno malvagia, degli alabardieri del pittore fiammingo. Si obietterà che le uniformi degli antichi mercenari erano più ricche di colori e più pittoresche. Ma non vi è forse colore ovunque il pittore sappia vederlo?
Il massacro dei bambini si rinnova peraltro, a grandezza naturale, in tutte le guerre, come nella più recente. E uno degli sport preferiti del militare sistemare, come un bersaglio, i bambini sul seno della madre per poi staccarli a colpi di fucile. Il tiratore sarebbe naturalmente squalificato se colpisse la madre, il che prova che nell'esercito è sempre viva l'antica galanteria francese.
Osserviamo, dato che ci troviamo a parlare di gesta militari, come i romanzi storici di Sienkiewicz, il romanziere polacco, sono molto più interessanti del tanto celebrato Quo Vadis. Semplicemente, Sienkiewicz ha descritto nei romanzi eroici fatti che se non sono contemporanei almeno non necessitano sforzo alcuno di ricostruzione. Stanislas Podbipieta, il boia che si affligge per tre teste allineate e il signor Zagloba, il buon bevitore, sono dei polacchi piuttosto simpatici.
Un argomento in favore della ricostruzione storica, tuttavia, vale la pena di esaminarlo: si da il caso che un certo mobile, uno strumento o un'arma antica inducano un romanziere a modificare la descrizione, o un pittore la composizione, di tutta una scena. Rammentiamo l'immagine strana e molto bella che abbiamo trovato nelle rivelazioni mistiche di Catherine Emmerich; il testo dei Vangeli dice, credo, che la testa di San Giovanni Battista fu portata non su un vassoio, come si traduce di solito, bensì letteralmente: su un disco, in disco. Catherine Emmerich interpreta che la testa fu portata su una specie di cesoia circolare a forma di disco, strumento mostruoso, che era servito a tagliarla.
Ma osserveremo che è l'immaginazione di Catherine Emmerich ad aver suggerito l'idea di quell'arma fantastica. Bisogna passare in rivista un certo numero di utensili dei tempi antichi per scoprirne qualcuno che sia davvero diverso dai nostri. Gli indiani, i greci e i romani avevano, nessuno lo ignora al giorno d'oggi, cappelli, sandali, abiti e parapioggia, o almeno parasole, piuttosto simili a quelli del nostro XX secolo, e cos'altro faceva la Fortuna, sulla sua ruota, se non andare in monociclo?
E possibile, certo, che tuttavia oggi si attribuisca agli utensili di quelle genti, piuttosto simili ai nostri, un uso del tutto diverso. Ne abbiamo la prova ogni giorno - non certo a proposito di oggetti antichi, bensì di oggetti esotici - con la paccottiglia del Giappone. Vi sono tazzine giapponesi che ci sembrano fatte apposta per mettervi la cenere delle nostre sigarette. Nient'affatto. In Giappone si usano per bere il sakè, che è una specie di alcol, non molto forte peraltro.
Un'obiezione più seria sarebbe questa: vi sono civiltà, mode e oggetti scomparsi, come sono scomparsi gli animali preistorici. E importante che l'arte sia documentata se vuole riprodurre gli ambienti perduti. Nella civiltà contemporanea, un cittadino di Parigi non ritroverà le emozioni del suo avo delle caverne, in lotta con il grande orso, il mammut o il rinoceronte dell'età della pietra. Ma queste emozioni, non le hanno forse provate tutti aspettando al varco, ad esempio, imboscati, nei pressi di una capanna all'uopo prevista come per la caccia in palude, il passaggio di un omnibus? Quale disperazione non ci ha colmato quando il cornac dell'omnibus ha fatto proseguire quel grosso animale tirandolo per la coda, che in effetti è molto simile a quella di un elefante? L'animale emette un grido discordante, da ogni punto di vista simile a quello dell'anatra o dell'ornitorinco, e fugge mostrando la sua scontentezza con un raggrinzamento della sua pelle posteriore, blu come quella di certe scimmie e fosforescente di notte, cosparsa di striature bianche che rappresentano perfettamente la grafia della parola: completo.
Insomma, l'opera d'arte fa perfettamente a meno della nozione di tempo: la preoccupazione di ricostruire un'epoca non ha altro effetto se non quello di ritardare il momento in cui essa si affrancherà dal tempo, cioè sarà eterna nella gloria. Se si vuole che l'opera d'arte divenga eterna un giorno, non è forse più semplice, liberandola dai lacci del tempo, renderla eterna già adesso?

Alfred Jarry

Le Temps dans l'art
conferenza tenuta a Parigi l'8 Aprile 1902 presso la Societé des artistes indépendants, e pubblicata per la prima volta nei «Dossier du Collége de pataphysique» n° 3, 1958, pp. 5-20.

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