venerdì 1 aprile 2016

NON È MAI TROPPO PRESTO

Sembra proprio che l'arte contemporanea rappresenti un'attrattiva per gli scrittori italiani.
È del 2014 il romanzo di Massimiliano Parente con protagonista l'affermato artistar Max Fontana al quale abbiamo dedicato un post.
Invece Tiziano Scarpa nel suo ultimo libro "Il brevetto del geco" pubblicato da Einaudi nel 2015 (323 pp., 20.00 €) descrive un artista misconisciuto, neanche del tutto convinto della sua scelta, ma non aggiungo più di tanto.
La vicenda artistica di Federico Morpio, il personaggio del libro di Scarpa, è solo una sfaccettatura di un libro complesso che non tenterò di recensire, le sue considerazioni sull'arte mi è capitato di sentirle realmente, affiorano anche in alcune e-mail ricevute dal blog e su qualcuna si è ironizzato in precedenti post.
Approfittando della scrittura di Scarpa, ne riporto alcuni stralci ritenendo che possano solleticare qualche riflessione, nella consapevolezza di fare un grave torto ai più ampi contenuti del romanzo estrapolando dal contesto poche frasi scollegate, ma in compenso, non rivelando nulla sulla trama, non rovinerò il piacere a chi vorrà leggerlo.

« … intorno alle sue opere si era creato un reticolo di conseguenze ridicole, patetiche, senza alcun eroismo bohémien, senza nessuna dignità: da molti mesi, Morpio era immerso in una salamoia di pensieri piccini, frustrazione, invidia, tempo perso a cercare di farsi pagare, pepe al culo per l'angoscia di non poter saldare l'affitto, umiliazioni e vacui desideri di vendetta, frequentazione di cialtroni che però erano gli unici acquirenti delle sue opere (anche questo, doveva pur significare qualcosa). La conclusione più logica, per quanto amara, era una sola: "È presto detto: forse non sono un artista".» (p. 50)

«Morpio aveva un metodo per tenere a bada l'invidia. Faceva così. Si chiedeva: che cosa ti importa veramente? Le opere. Tutto il resto non conta. Che Mauro Giaccame esponga a Londra guadagnando carriole di sterline può farti dimenticare che quelle che fa sono orride puttanate? Che Gianna Belfrate sia la più celebre artista italiana nel mondo, può cancellare il fatto che ha avuto una sola idea e l'ha ripetuta in mille salse da vent'anni in qua? Eccetera.
E quando questi argomenti non bastavano, gli veniva in aiuto una fantasticheria. Gli appariva un demone, con il nigro sguardo di Massimiliano Gioni, l'affabile gota di Massimo De Carlo e l'autorevole epa di Germano Celant (ma a volte aveva la fronte di Hans-Ulrich Obrist, il ciuffo di Boris Groys e la canappia di Charles Saatchi), che gli diceva:
«Ti faccio diventare ricco e famoso come Maurizio Cattelan, vuoi?»
«Eh», traccheggiava Morpio.
«Ma a un patto. Devi acconsentire a essere L'autore delle sue opere».
«Quali?»
«Tutte quelle che ha fatto».
«Non è possibile».
«Certo che non è possibile. Ma io sono una tua fantasticheria, apparsa per curarti l'invidia. Se non collabori non servo a un cazzo».
«Scusa».
«Ricominciamo. Ricco e famoso come Cattelan eccetera, ma a un patto eccetera».
«Com'è possibile?»
«A me nulla è impossibile. Ipnotizzerò tutto il mondo, correggerò cataloghi di mostre e libri illustrati, enciclopedie e wikipedie, riscriverò la storia dell'arte contemporanea degli ultimi trent'anni. Da oggi l'autore della Nona ora e di Him non è più Maurizio Cattelan ma Federico Morpio. Avrai il suo conto in banca e le monografie di Phaidon, Taschen e Skira dedicate ai tuoi opera omnìa. Ci stai?»
«Ma che cosa devo darti in cambio? L'anima?»
«No».
«Il culo?»
«Nemmeno. Te l'ho detto. In cambio è sufficiente che tu sia disposto ad accettare che quelle opere siano universalmente considerate tue».
« Io...»
Morpio ammirava Maurizio Cattelan. Di lui gli piaceva che gli addetti ai lavori lo avessero sempre trattato con supponenza, come un simpatico burlone, mentre in realtà aveva sfornato un'opera tragica dopo l'altra. D'altronde, con i suoi comportamenti e le sue boccacce, sembrava che Cattelan stesso volesse essere trattato cosi; come se solo attraverso lo spiffero della buffoneria fosse possibile insufflare nel mondo tutta l'angoscia delle sue opere. L'epoca a cui era appartenuto Cattelan non era in grado di sopportare la disperazione senza che fosse avvolta in un packaging scherzoso. I suoi erano pacchi-regalo avvelenati.
«Ma perché proprio Cattelan? Perché non Richter, o, non so, Nathalie Djurberg, o chiunque altro considerato un po' più serio?» obiettava Morpio.
«Benissimo. Richter, Djurberg o chi vuoi tu. Ti proponevo Cattelan perché è l'unico italiano che in questi anni ha avuto una retrospettiva al Guggenheim».
Dopo aver impiccato bambini, cavalli, galleristi, Cattelan aveva comunicato la sua rinuncia all'arte impiccando le sue opere, tutte quante; le aveva appese a delle funi nel vuoto centrale del museo newyorkese. Opere suicide che si gettano nella tromba delle scale.
Forse... Al posto di Cattelan... Perché no?... Poteva anche essere...
«Allora, ci stai?»
«Col cazzo», rispondeva Morpio.
Il demone tentatore si ritirava alzando le spalle.
Il metodo funzionava sempre. Anche quando il demone tornava offrendogli di diventare Gerhard Richter o Nathalie Djurberg. L'idea che ottenere quel successo e quella fama non fosse possibile se non passando per quelle opere, e che fosse necessario assumersene la paternità, annientava in lui qualunque sturbo invidioso. "Magari per sempre sfigato e sconosciuto, ma autore delle mie opere", si consolava Morpio. Si illudeva che questo lo giustificasse, dandogli un certificato d'innocenza.
Però la terapia anti-invidia era molto più complicata quando doveva digerire i piccoli successi dei coetanei; peggio se erano ex compagni di Accademia, o artisti attivi a Milano. Secerneva bile dai dotti lacrimali, con gli occhi fissi al computer, quando su facebook scorrevano a cascata inviti a mostre, annunci di residenze all'estero e premi vinti dai suoi colleghi. Allora andava in crisi. Si sconnetteva, disattivava il collegamento wi-fi. Soffriva troppo.» (pp. 57 - 59)

« … "Non è invidia. Sono felice per lei. Quella troia puttana stronza. Perché Micaela Maer sì e io no? Che cos'è che hanno le sue opere più delle mie? Avrà dato qualcosa alle persone giuste. La figa no, scommetto che non ce l'ha neanche, dev'essere piatta come le bamboline. Li avrà pagati. I soldi ce li ha. E di buona famiglia. Ha fatto i corsi giusti, i master giusti, con gli insegnanti e i tutor e gli artisti giusti che le hanno fatto conoscere i curatori giusti, ha partecipato ai premi giusti per giovani artisti giusti. Tutto così conformista. Opere che pretendono di essere eversive, promosse da un sistema che più istituzionale non si può. Eh, certo, pensare che sia tutto corrotto mi fa meno male. Vorrebbe dire che l'arte non c'entra. Ma qui purtroppo c'entra. Il QT2 è un'istituzione serissima. È la mia arte che non riesce a farsi strada. Micaela Maer è brava. Oddio, brava: bravina. Mediamente parlando. Se può valere la media, in arte, dove contano soltanto i capolavori. E qui si fa fatica a chiamarli lavori, figurarsi capo. Merda pura. È media, mediana, mediocre. Chi è che ha spompinato per ottenere il QT2?… » (p. 62)

« … Ha tutta la mia ammirazione. È un'artista seria, crede in quello che fa, e adesso raccoglie i risultati del suo lavoro. Se lo merita. Siamo onesti. Devo riconoscere il valore. Basta invidia. Quella assurda puffetta. Si sarà data da fare. Come è giusto che sia, d'altronde. Bisogna curare le pubbliche relazioni. Pensavo che bastasse stare a Milano: pensavo che essere nato qui, avere studiato nella città italiana più importante per l'arte contemporanea mi garantisse la rete di relazioni sufficiente a sfondare. Farsi vedere a qualche inaugurazione, bere l'amaro prosecchino d'ordinanza, scambiare due chiacchiere. Avere buoni lavori, opere interessanti, e stare a Milano; tutto il resto sarebbe venuto da sé. Anche su questo ho fallito. » (p. 63)

«Quando un emergente cominciava ad affermarsi, doveva passare a dimensioni più grandi. Più un'opera era voluminosa, più significava che l'artista aveva successo e che aveva trovato una galleria o un museo disposti a finanziare un progetto costoso. Le opere insulse, non potendo contare sul loro valore artistico, si legittimavano con l'enormità della mole. Non riesci a fare qualcosa di grandioso? Fallo grandissimo. Le grandi dimensioni erano l'equivalente del sublime nell'epoca contemporanea. Il sublime romantico procurava un sacro spavento: ci si sentiva minuscoli di fronte al paesaggio, ammirando atterriti l'abissale potenza della natura. Il sublime contemporaneo procura un sacro rancore: ci si sente una nullità dinanzi all'economia, invidiando sgomenti il monumentale potere del denaro.» (pp. 66 - 67)

«Paul Gauguin partì per Tahiti a quarantatre anni. Willem de Kooning fece la sua prima mostra personale a quarantaquattro anni. Mark Rothko cambiò drasticamente stile a quarantacinque anni, qualche mese dopo la morte della madre, iniziando a dipingere i rettangoloni di colori sfumati che Io avrebbero reso celebre. Lucio Fontana affondò per la prima volta il bisturi nella tela inventando i Tagli a cinquantanove anni: cinquantanove! Per i grandi artisti non era mai stato troppo tardi per ricominciare. "Per un piccolo artista non è mai troppo presto per smettere"» (p. 158)

«Apprezzava chi era disposto a uscire di casa per visitare una mostra; disprezzava chi si trovava tutto a portata di mano con un clic sul computer.
[…]
Condividere le opere in rete era considerato cheap dalla gente cool. E anche lui era d'accordo: pensava che fosse una scorciatoia per cercare consenso.» (p. 159)

«Non aveva convinto nessuno a scommettere su di lui. Se non ci fosse stata Veronica, che era riuscita a piazzare qualche suo lavoro in giro... Negli ultimi anni Morpio aveva continuato a realizzare opere a vuoto, per pura ostinazione. C'era stato un tempo in cui questo lo faceva sentire un artista vero. Uno che lo fa perché ci crede, non perché vende.» (p. 178)

«Il dio che per gran parte della sua vita gli aveva tenuto sospesa la testa, mantenendolo in postura eretta, era l'arte.
1. Non aveva avuto altri pensieri all'infuori dell'arte.
2. Non aveva mai concesso a vanvera la qualifica di opere d'arte a qualsiasi cosa facesse o vedesse.
3. Si era ricordato di santificare l'arte ogni giorno.
4. Aveva onorato gli artisti del passato e i maestri del presente.
5. Non aveva ucciso la sua ispirazione.
6. Non aveva reso impure le sue opere snaturandole per inseguire le tendenze del momento.
7. Non aveva rubato le idee degli altri.
8. Non aveva dato giudizi falsi sulle opere sue e altrui.
9. Non aveva desiderato la fama degli altri artisti.
10. Non aveva desiderato la ricchezza degli altri artisti.
11. Tutto questo non era servito a un cazzo.» (pp. 180 - 181)

«Oh tu, Gustave Courbet, che organizzasti la prima mostra autogestita da un artista;
e tu, Edouard Manet, che esponesti in un padiglione indipendente;
e tu Paul Gauguin che esponesti in un caffè;
e voi pittori Impressionisti che organizzaste la vostra prima mostra nello studio di un fotografo;
e voi Odìlon Redon, Georges Seurat, Paul Signac e gli altri fondatori del Salon des Indépendants;
voi pittori della Brücke che esordiste esponendo in una fabbrica di lampadari;
oh tu Claes Oldenburg che apristi un negozio nel Lower East Side vendendo le tue sculture senza la mediazione di un gallerista,
e tu Keith Haring che ti facesti conoscere disegnando le tue prime opere in metropolitana, con il gesso, e per questo fosti arrestato,
oh tutti voi Eroi Artisti che oltre alla meta inventaste anche la strada: mostrate la via a coloro che non hanno il coraggio di prendere l'iniziativa!» (pp. 202 - 203)

««Non puoi dargliela vinta», gli disse Furio.
«A chi?»
«A quelli che ti hanno escluso».
«Mi sono escluso da me. Con la qualità di quello che facevo. E poi ho deciso io di smettere».
«La qualità delle tue opere era, anzi, è alta. E comunque non è peggiore di tanti artisti affermati. Se molli, dai soddisfazione a tutti quelli che hanno fatto passare loro e hanno bloccato te. Quelli che non ti hanno mai valorizzato. I curatori conformisti che obbediscono alle tendenze di moda. I vecchi artisti-professori che spingono avanti i loro allievi. I curatori gay che scelgono artisti gay. Le curatrici donne che scelgono artiste donne. I curatori maschilisti che scelgono artiste carine. I collezionisti ricchi che trasformano in grandi opere robaccia inconsistente solo perché la pagano tantissimo. E intanto noi diventiamo pazzi cercando di razionalizzare, per capire che criteri ha tutta questa gente».
«Tu li hai capiti?»
«Certo», disse Furio.
«E quali sono?»
«Fondamentalmente quattro. Il primo è l'arbitrio, il secondo l'arbitrio, il terzo l'arbitrio».
«E il quarto?»
«Il piacere di imporlo».
«Hai un'idea un po' sempliciotta della situazione», disse Morpio.» (pp. 204 - 205)

«… Comodo giustificare il proprio lavoro prendendosi per il culo da sé. "La satira me la faccio da solo, prima che me la faccia tu, cosi ti anticipo, tolgo la terra sotto i piedi a qualunque critica". Volere tutto e il suo contrario, il sì e il no dentro la stessa parola, l'affermazione con la sua bella negazione incorporata... Il postmoderno è finito, ma c'è ancora chi va avanti con gli scherzetti. Se sei il primo a non credere in quello che fai, perché dovrei crederci io?» disse Furio» (p. 234)

«… finché uno si muove a certi livelli, può fare solo cose di un certo livello. Non dico che qui il livello sia basso, ma l'hai detto anche tu che così sto facendo le cose in piccolo. Se fai sempre le nozze con i fichi secchi, passi per uno che in testa ha solo fichi secchi, capisci? Credono che hai idee deboli, non si rendono conto che il problema è che non hai i mezzi per realizzarle come si deve». (p. 275)

«… se un'opera è un'opera, è anche perché non c'è niente che garantisca che lo sia. Non sai mai se ti stai dedicando a qualcosa che vale la pena, o se stai sprecando il tuo tempo». (p. 286)

Tiziano Scarpa, Il brevetto del Geco, Ed. Einaudi 2015, pp 328, € 20,00.

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