«Goffredo intrò alla bottega che di anni era tredici. A menarlo fu lo padre che di lui disperava. Per li primi mesi guardò lo magistro di sotto l'impalcatura sopra la quale quello affrescava e, cum molta meraviglia, lo lodò per la perizia delle mani sue e li colori che dominava similmente alla forma.
Lo mese settimo iniziò la mistura e di comporre colore semplice ebbe mandamento. Lo anno che venne sapeva allungare li oli e fare basamento. Col tempo Goffredo inorgoglì e si fece alto e robosto e bello e nelli sguardi altrui specchiava sua virtù. Ma lo unico che pareva non vederla era lo maestro suo, che lo spingeva all'adagio e a mille volte lo stesso gesto ed eguale ripetere senza stimare lo talento suo maggiore della sua gioventù.
Lo magistro per mesi molti all'esercizio lo costrinse su tavole gessate che pregio alcuno davano al travaglio di Goffredo. Eppure ogni sera con perizia le valutava, estimandole quasi sempre migliori di quelle che le avevano precedute. Quelle poche erano le carezze che dal magistro receveva e Goffredo cominciò a sentirle presto fredde e non abbastanza degne dello dono che in sue mani contava d'avere.
Imperocché lo giorno gionse e una mattina che ancora non era primavera, ma già fora dell'inverno, lo magistro lo chiamò e gli disse che l'indomani pronto si tenesse a mettere per la prima volta lo pennello sullo muro, dintro una chiesa del comune, che in commissione gli era stata affidata. Goffredo vegliò tutta notte figurandosi lo disegno che per primo avrebbe fatto e quando battè la mattutina, sortì di casa agghindato da pingitore e, con lo carretto de li colori suoi, si diresse verso la chiesa, sanza evitare lo paese perché a nessuno fosse nascosto che quello lo primo suo giorno di pingitore era.
Dentro la chiesa era buio molto, ma lo maestro già stava ritto dinnanzi allo muro. "Accendi li fochi" gli disse.
Goffredo sentì offesa, poiché stimava che ora che pingitore era, avesse bisogno di servente, e che non più a lui toccassero simili lavori di fatica e di dispregio. Tuttavia nascose lo scorno e amaramente si chinò a fare quanto necessario perché dentro la chiesa li lumi ardessero.
"Stanotte, magistro, pensai una figura di donna, una madonna giovane, e due agnelli e molti villici sullo fondo e scene di contado, che ora ambisco porre a pittura. Ne feci questo modello che qui vi mostro perché me ne diate giudizio". E gli porse una sottile pergamena.
Lo magistro continuò a fissare lo muro, in alto, dove la calce era bianca e pronta a ricevere il colore.
"Ora tu prenderai li legni che fora stanno e monterai uno ponteggio robusto e una scala per salirvi. Di poi ti tergerai le mani, che siano monde, e in una scodella picciola farai lo giallo, vivo, non del sole, simile all'oro. Quindi l'auriola pingerai all'agnolo che io intanto avrò disegnato, poi discenderai e sederai discosto a vedere lo mio lavoro procedere. Domani unaltra auriola avrai per compito e così tutte le auriole di questa chiesa, che forse a venti conteranno, saranno di tuo pugno".
"Null'altro?".
"Null'altro".
Goffredo chinò lo capo e lagrimante sortì tirandosi lo carretto verso casa.
Qualcuno ebbe a dire che solo continuò suo apprendistato e suo nome innalzò fino a pingere chiese di Papi e palazzi. Mai più ebbe a incontrare lo suo magistro, ma sempre ne parlò nomandolo «lo cieco caprone». Dentro le case di signori soggiornò pagando la loro stima col suo pennello, e molti figli ebbe, nessuno capace di suo talento.
Più invero lo dissero dimentico delli insegnamenti e dell'arte sua. Divenuto oste ebbe due figli che avviò allo sacerdozio, in un caso solo fallendo. E una sera che lo magistro ebbe a passare nella locanda sua, egli mandò la moglie a servirlo e in cucina si chiuse, a nessuno confidando la cagione del suo umor nero e di tutto lo vino bevuto per scacciarlo.»
* Il testo è tratto da Davide Longo, Maestro Utrecht. Ed. NNE, pp156, € 13,00
Oggi Goffredo invece di diventare oste insegnerebbe in una scuola d'arte e con lo stipendietto mensile assicurato, "dimentico dell'arte sua", potrebbe continuare a dir male del maestro.
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