lunedì 1 agosto 2016

L'INCISORE E LA FORMICA

L'unica "incisione" che oggi mi interessa è quella che nel dare forma (cioè segno, stile, composizione) ad un contenuto, riesce a raccordare idee ed esperienze, ma senza esibire lo scarto tra incisione e mondo, o la virtualizzazione del reale, o il labirinto bugiardo di sconfinati universi paralleli, o l'esplosione del linguaggio, o la crudeltà obliqua, o il destino manieristico dell'arte.
Ho trovato un chiarimento di questa mia idea confusa nel romanzo “Maestro Utrecht” di Davide Longo (NN Editore, pp. 156, € 13,00), dal quale avevo tratto il post intitolato “Apologo sulla didattica dell’arte”.
Longo, che insegna scrittura presso la "Scuola Holden" di Torino, utilizza la metafora della "formica tagliafoglie" riferendola all'attività dello scrittore, così, anche se a Davide Longo, «… irrita parecchio che usino le mie similitudini… Non mi va che troppa gente ci metta le mani sopra.» (p. 53) la riporto con l'aggravante di distorcerla sostituendo le parole scrittore e storie con artista ed arte.

«Per arrivare al sodo, essa fa cosi: la formica tagliafoglie è una formica tropicale dotata di robuste mandibole e due denti laterali simili alle chele di un granchio, che le servono per ritagliare geometricamente grandi foglie, staccarne parti pesanti fino a dieci volte il suo peso, e trasportarle nella tana.
Le tane sono agglomerati urbani, un metro sotto terra, abitati da milioni di formiche che civilmente collaborano per il bene della comunità, secondo il luogo comune che le accomuna alle api e ad altre industriose creature estranee all'egoismo.
Per molto tempo sì è dato per scontato che le formiche tagliafoglie si cibassero dei ritagli di foglie. Perché altrimenti fare tutta quella fatica? Finché si è scoperto che le cose non stavano così.
La formica tagliafoglie non mangia le foglie, ma le porta in un'enorme cella sotterranea e aspetta che grazie al buio e al calore vadano in decomposizione, producendo sulla loro superficie un fungo, fonte del suo sostentamento.
Lo stesso equivoco alimenta da sempre l'idea che la gente ha degli artisti: che prendano pezzi di vita, li portino in laboratorio e ne facciano opere d'arte.
Un artista non si ciba di vita propria o altrui, ma ne ritaglia porzioni, le trascina nella tana e aspetta che su quei brandelli in decomposizione, grazie al luogo caldo, chiuso e poco areato, nascano le sue opere. Ne deriva che le opere d'arte non sono vita, né una sua "rappresentazione", ma qualcosa che cresce sopra la vita, nelle tane di determinati individui. Può sembrare una questione di lana caprina, ma in verità è sostanziale, avendo a che fare con la sostanza di cui è fatta l'arte

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