domenica 27 marzo 2011

TRADIZIONI TRADUZIONI TRADIMENTI

John Sartain
Demoni e dannati
da Luca Signorelli,
Duomo di Orvieto,Cappella di San Brizio.
acquaforte.
lastra mm 325 x 435
foglio mm 335 x 495






Chi visiterà la mostra “Dante Gabriele Rossetti, Edward Burne-Jones e il mito dell’Italia nell’Inghilterra vittoriana”, allestita presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma fino al 12 Giugno 2011, troverà nella prima delle dieci “stanze” che scandiscono il percorso espositivo, una raccolta di opere di riproduzione incise e in cromolitografia. Può apparire un aspetto marginale rispetto alle problematiche storiche e critiche dell’arte, ma non lo è rispetto al valore e al significato della conoscenza e della divulgazione delle opere d’arte attraverso le loro riproduzioni.
Sintetizzando i testi in catalogo di Giorgio Marini e Maria Francesca Sonetti, l’interesse dei Preraffaelliti per la cultura dei “primitivi” italiani si coagulava attorno alle riproduzioni degli affreschi del Camposanto di Pisa incise all’acquaforte da Carlo Lasinio (1759-1838) formatosi fra Treviso e Venezia nello stesso ambiente e negli stessi anni di Antonio Canova. Le grandi tavole, riunite in un volume in folio, erano incise con un tratto sottile, quasi a contorno e con pochissime indicazioni chiaroscurali, inoltre la mancanza di prospettiva rinascimentale doveva costituire agli occhi dei Preraffaelliti un insperato antidoto contro ogni convenzione accademica, esercitando, in forza della loro serena ingenuità compositiva, il fascino di un paradiso perduto tutto da riscoprire.
L’ambiziosa impresa di riprodurre in incisione tutti gli affreschi del Camposanto era stata suggerita a Lasinio dal poligrafo Giovanni Rosini e dall’appoggio culturale di Leopoldo Cicognara che era divenuto sostenitore dell’incisore veneto tanto da favorirne la nomina a conservatore del monumento pisano.
L’efficacia interpretativa della raccolta si deve anche all’impegno degli artisti che avevano fornito i disegni tra i quali Francesco Nenci e il figlio di Lasinio Giovanni Paolo. Proprio il giovane Lasinio pubblicherà, nel 1832, un’edizione in formato ridotto, con immagini, tratte dalle incisioni del padre, rese a soli contorni di cui resta anche una tiratura colorata a mano. I rami si trovano presso l’Opera della Primaziale di Pisa e l’impatto di questa versione più accessibile nelle sue dimensioni contenute dovette essere ancora più significativo.
Nell’Inghilterra vittoriana il recupero, la conoscenza e la diffusione dell’arte dei “primitivi” italiani ricevettero una particolare attenzione da parte dell’Arundel Society che con i suoi intenti didattici ed educativi, supportati da numerose pubblicazioni, contribuì a formare anche quella coscienza intorno ai problemi conservativi che sono poi divenute patrimonio della cultura contemporanea.
La denominazione della società deriva da Thomas Howard Conte di Arundel collezionista del XVII secolo.
È importante sottolineare che alla ricca produzione editoriale, che si colloca interamente nel campo della traduzione delle opere d’arte, collaborarono diversi disegnatori e incisori italiani come ad esempio Cesare Marianecci, Nicola Consoni, Bartolomeo Barroccini, Achille Ansiglioni, Andrea Belloli.
Le prime opere pubblicate per i membri associati testimoniano ancora di interessi a carattere prevalentemente antiquario, che difficilmente potevano far presa su un largo pubblico, che di fatto, ancor prima di essere formato ed educato, doveva in qualche modo essere affascinato e attratto. All’inizio le difficoltà di riscontri furono causate se non proprio dalla scelta dei soggetti trattati, dal genere e dallo stile delle riproduzioni, che apparivano troppo sommarie e non abbastanza fedeli, oltre che antiquate rispetto a quanto ci si poteva ormai aspettare dai progressi che andava facendo la fotografia che tuttavia, sebbene fosse il mezzo di riproduzione meno soggetto a distorsioni interpretative, non permetteva ancora di essere utilmente adottata per la ripresa di pitture, soprattutto affreschi, a causa dei limiti tecnici dei tempi di esposizione in ambienti poco illuminati e delle emulsioni non ancora sensibili a tutti i colori dello spettro.
La cromolitografia era in quel momento, nel campo della stampa e della riproduzione, il procedimento che poteva assicurare le maggiori garanzie di fedeltà con l’originale. Il procedimento, che era stato introdotto ufficialmente dallo stampatore e litografo francese Godefroy Engelmann (1788-1839), permetteva un uso della tecnica altamente sofisticato, giungendo fino all’impiego di 25 pietre per i diversi colori.
Nel 1856 fu pubblicata la prima cromolitografia dell’Arundel, riproducente il Martirio di San Sebastiano del Perugino realizzata da Ludwing Grüner traendola da una copia ad acquarello di Cesare Marianecci che, per diversi anni, risulta essere quasi l’unico referente dell’Arundel per la traduzione degli affreschi quattro-cinquecenteschi nell’area umbro-toscana. Tra tutti gli acquerelli realizzati quelli tratti dal ciclo di affreschi della Cappella Brancacci al Carmine di Firenze ebbero una certa risonanza anche in Italia, dove purtroppo le pubblicazioni dell’Arundel non trovarono mai un’ampia diffusione.
Il tentativo di conciliare gli interessi di documentazione e di studio con le esigenze divulgative e considerazioni di tipo commerciale, indulgendo ad effetti maggiormente decorativi, fece sollevare la polemica intorno alla questione delle “copie restaurate”, poiché molti ritennero inopportuna la differenza tra il reale stato di conservazione degli affreschi e l’aspetto con cui venivano mostrati nelle cromolitografie dove appunto apparivano come “restaurati”. Successivamente però, all’opposto, finì con l’attirarsi critiche anche il litografo Christian Schultz per la sua resa “dagherrotipica” delle più minute crepe sull’intonaco. D’altra parte alla base di questo tipo di traduzioni c’era già l’utilizzo della fotografia che, con le sue pretese di assoluta oggettività, favorite dal rapido progresso tecnico rese superato ed antieconomico ogni procedimento manuale.
Nei primi anni novanta emergono significative difficoltà economiche per la diminuzione dei membri associati e per il calo di vendita delle stampe, tanto che non vennero commissionate nuove copie e per le ultime edizioni si utilizzeranno acquerelli eseguiti anni prima, pervenendo alla definitiva chiusura il 31 Dicembre 1897.
L’Arundel Society non aveva fini di lucro pertanto tutti i profitti erano reinvestiti nelle attività promosse e si stima che siano stata poste in commercio non meno di 200.000 riproduzioni.

Rientrato a casa ho voluto confrontare le cromolitografie riprodotte in catalogo con le riproduzioni fotografiche presenti nelle attuali monografie. Nonostante i moltiplicati passaggi riproduttivi il confronto appare strabiliante, personalmente attribuirei il vantaggio alle cromolitografie. Certamente il livello di specializzazione e il talento delle diverse maestranze chiamate a collaborate era di qualità assoluta; molti passaggi del procedimento riproduttivo non mi sono noti e probabilmente se ne è persa memoria. Nella fase di copia dell’opera si potrebbe ipotizzare un uso della camera ottica, già documentata nei secoli precedenti, e se penso alle difficoltà di messa a “registro” delle diverse “battute” litografiche… non si può non restare ammirati: solo perizia e tecnica artigianale, certo, ma di quale sublime qualità. Nonostante tutto non può esserci alcun rimpianto e una nota finale sull’incisione contemporanea è d’obbligo (per altre considerazioni al riguardo rimando al post SULLA CRISI).
Accantonata l’incisione come mera tecnica riproduttiva, c’è da chiedersi se  può considerarsi ancora attuale il suo valore come linguaggio, la sua imprescindibile necessità espressiva, se cioè per un artista vi sono immagini che possono essere rese solo attraverso la specificità del linguaggio grafico delle tecniche dell’incisione.
Anche le lingue “muoiono”, pur continuando a custodirne la memoria delle regole grammaticali e delle strutture sintattiche codificate, in campo artistico basta sfogliare un manuale di Storia dell’Arte per sentirsi disorientati dalle evoluzioni, dai cambiamenti dalle fughe in avanti, dai “ritorni all’ordine”…. e come alcune tecniche siano andate in disuso.
L’arte dell’incisione non può avere ragion d’essere solo compiacendosi del proprio anacronismo se vuol continuare ad essere considerata arte e non residuo di superate pratiche artigianali.

1 commento:

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    nolvadex

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