sabato 28 luglio 2012

PER CELEBRARE IL 50° ANNIVERSARIO DELLA SCOMPARSA DI GIORGIO MORANDI

Rispetto all’iniziativa che mi è stata segnalata ho espressamente richiesto quei chiarimenti che, di primo acchito, mi sono venuti in mente.
Mi è stato assicurato che non è imposta alcuna quota di partecipazione, ma quanto alla stampa di un catalogo della mostra e alla restituzione delle opere spiegano meglio le parole della e-mail con la quale Eugenio Santoro mi ha cortesemente risposto:

«Il problema è che quasi tutti i fondi disponibili delle Istituzioni, sono stati doverosamente utilizzati per il terremoto, tutto era già pronto. D'altronde, chi se lo aspettava..? Qua è stata davvero una brutta situazione, solo che a differenza di altri, noi non ci piangiamo addosso, reagiamo. Anche con l'Arte.
Le opere possono anche essere lasciate in donazione alla collezione d'Arte del Quartiere Santo Stefano. So che con lei posso essere sincero, conoscendo il simpatico tenore del suo blog: è mio desiderio che gli artisti partecipino principalmente per amore dell'Arte e dell'incisione (sebbene l'occasione del 50esimo sia praticamente unica, in effetti).
Se si partecipa anche per avere una pubblicazione, non posso per ora, assicurare la stampa di un catalogo, per il motivo di cui all'inizio. Il video dell'inaugurazione, invece glielo assicuro. Di più, non riesco.»

Ho scordato di chiedere se è prevista una qualche selezione, ma dovendo eventualmente richiedere la scheda di partecipazione ognuno potrà porre tutti i quesiti direttamente al curatore.



Il Quartiere S. Stefano (Bologna) ha incaricato Eugenio Santoro dell'Associazione Culturale SerenArte, per l'organizzazione delle celebrazioni in occasione del 50esimo anniversario della scomparsa di Giorgio Morandi.
L'evento principale sarà una mostra itinerante che partirà da Bologna il 13 Gennaio 2013 dalla sala espositiva Cavazza del Quartiere stesso, andando poi in altre sedi, tra cui per esempio, Bodio Lomnago (VA).
Le opere incisorie, create per l'occasione, dovranno avere come tema Giorgio Morandi e/o la sua città.

I requisiti richiesti sono:
- Grandezza massima del foglio: 25 x 35 cm (misura libera della lastra)
- Termine di consegna: entro il 30 Novembre 2012
- Numero massimo di opere: 2 per ciascun artista
Chi volesse partecipare, può richiedere la scheda di partecipazione a infoserenarte@gmail.com che sarà inviata personalmente, oltre ad eventuali altre informazioni.

Eugenio Santoro
Presidente Ass. Cult. SerenArte
Via Santo Stefano 168 40125
Bologna


Tel. 349 2901981
Tel/Fax 051 227351
skype:    serenarte2009

 

domenica 1 luglio 2012

BARTLEBY L’INCISORE


Luigi Bartolini
L’incisore solitario (il Misantropo)
Acquaforte 1925
282 x 240















Riprendo un tema che per certi aspetti avevo già affrontato nel post ABBOZZO DI RITRATTO  http://morsuraaperta.blogspot.it/2011/11/abbozzo-di-ritratto.html
In letteratura il fenomeno è più noto, è già ampiamente indagato, riguarda quegli scrittori che hanno pubblicato un solo libro e poi non hanno scritto più nulla; coloro che hanno scritto tantissimo ma non hanno mai pubblicato niente; coloro che hanno pubblicato da eteronomi; infine, per quanto possa sembrare paradossale, coloro che, pur avendo una elevatissima coscienza letteraria, non hanno mai scritto nulla.
In tutti questi casi si parla di “scrittori del No” o “agrafi” o di “sindrome di Bartleby” dal nome dello scrivano dell’omonimo racconto di Melville noto per la sua celebre frase di diniego “Preferirei di no”.
Non so se Bartleby si nasce o si diventa (credo che ambedue i percorsi siano possibili), comunque indipendentemente dall’attività svolta i Bartleby sono quegli individui che ospitano dentro di sé una profonda negazione del mondo, ma nulla a che vedere con certe forme di spontaneismo dilettantesco o di consapevole espressione più o meno naif.
Con questo post intendo dare riscontro a tale atteggiamento rapportato allo specifico campo dell’arte e, soprattutto, dell’incisione.

Nella storia dell’arte un caso clamoroso è probabilmente quello di Duchamp che continuò ad essere considerato un artista pur avendo abbandonato l’arte e preferendo giocare a scacchi. Dopo il Grande vetro, Duchamp era rimasto senza idee, così, piuttosto che ripetersi, smise di creare. Ma la prodezza di Duchamp va ben oltre le sue opere d’arte o di non-arte, consiste nell’essere riuscito ad abbindolare il mondo dell’arte applicando col Ready made la legge del minimo sforzo e facendo sì che gli rendessero onore sulla base di credenziali false: fece della sua stessa vita il suo capolavoro.
Anche il fenomeno di coloro che non realizzano più nulla di nuovo ma fingono di essere in attività è alquanto frequente, all’occorrenza cambiando la data di un vecchio lavoro, e su questi casi mi sono già espresso in modo caustico.
Tra i casi di artisti che operano nell’ombra il più attuale è il graffitista inglese Banksy, ma le sue opere sono ben note e anche ben quotate; il non mostrarsi di persona se all’inizio poteva servire per nascondersi alla polizia che lo ricercava per aver imbrattato i muri, adesso sa più di operazione di marketing un po’ alla Gino de Dominicis (1947-1998).

Iniziamo a sgombrare il campo da interferenze: non è questa casistica che mi interessa indagare, così come non mi interessa il fallimento artistico che certamente può essere una causa diretta della rinuncia a continuare a lavorare. Il caso dei falliti non è molto interessante, perché troppo ovvio: non c’è nessun merito nel diventare un artista del No dopo un fallimento. Il fallimento proietta eccessiva luce e troppo poca ombra di mistero sui casi di chi rinuncia alla visibilità per un motivo così volgare.
Non mi interesano questi casi così come non mi interessa il suicidio che è forse la via più rapida per diventare un artista del silenzio.
Mi interessano gli appartati, i “Bartleby” che lavorano per se stessi ma “preferiscono dire di no” alle convenzioni, alle regole, ai riti del “sistema”.
i casi conclamati sono pochi, perché è difficilissimo “stanare” un autentico Bartleby l’incisore.
Si può provare a setacciare le piccole e grandi rassegne, individuare un opera di qualità ed indagare sul suo autore, magari scoprendo così che un premiato risulta non aver fatto quasi nient’altro né prima né dopo.
La “sindrome” deve avere qualcosa a che fare anche con la propria fisicità, alcuni si sentono rassicurati dalla distanza infatti sono disposti ad inviare i propri lavori all’estero; altri ritengono di poter passare inosservati tra la “folla” e partecipano a qualche grossa collettiva, ma tutti si rifiutano categoricamente di fare una mostra nella propria città.
Solo guadagnandosi la fiducia personale si può entrare in contatto con un autentico Bartleby.
Per certi aspetti, pur essendo un personaggio letterario, un buon esempio è rappresentato da Frenhofer autore del “capolavoro sconosciuto” di Balzac; per altri aspetti il caso tipico, “soggetto” del mio interesse, può essere ben caratterizzato dal racconto che ne fa il poeta Nino De Vita nel suo testo intitolato “Il diniego del pittore”, scritto per la quarta delle cartelle realizzate annualmente dall’Associazione “Amici di Leonardo Sciascia”.
De Vita ricorda un episodio che lascio raccontare dalle sue stesse parole:
«…il Sindaco di Chiaramonte propone a Sciascia di andare a visitare lo studio di un artista.
Il pittore - che si chiama come me, De Vita – abita in una casa che dà in una stradetta fatta di gradini; ha passato i settant’anni ma è ancora di aspetto giovanile: emigrato in Sudamerica (Argentina, se non ricordo male) è tornato, da un decennio, nel paese che gli ha dato i natali e qui, da solo, vive.
La stanza è quella di un pittore: bottigliette e pennelli sono ammassati, confusi, sul tavolo e per terra; c’è un cavalletto con una tela disegnata, un tavolino ricolmo di tubetti di colore.
Osserviamo, con attenzione, i quadri che sono attaccati alle pareti, i tanti quadri che l’uomo, prendendoli a uno a uno da un mucchietto poggiato ad una cassa, ci mostra: volti di donna e paesaggi iblei, alberi nudi, scorci di paese. Personalmente rimango attratto da questa sua pittura: mi richiama, la luce che c’è nei suoi quadri, la luce di Morandi.
Leonardo guarda, silenzioso; emette dalle labbra chiuse un suono che è per me indescrivibile, somiglia a un ronzare di un moscone nel suo volo, un suono emesso ad intervalli ed è da interpretare, in questo caso, come approvazione delle cose viste. E infatti, poco dopo “De Vita senta” dice, con la sua voce calma, cordiale “ a me questi suoi lavori piacciono. Vorrei, se lei è d’accordo, presentare una sua mostra a Palermo”.
Il pittore, che era rimasto in silenzio per tutto quanto il tempo della nostra visita, adesso ha un impulso, uno scatto, di impazienza.
“Ma che dice?!” risponde, agitato; e alzando, cortese ma deciso, il tono della voce: “Queste cose dalla mia casa, da qui” e punta con il dito il pavimento “non usciranno mai!”
C’è un comprensibile imbarazzo in tutti noi. La reazione del pittore appare sproporzionata. A me viene subito da considerare che sicuramente mai in vita sua Sciascia ha ricevuto, da parte di un artista che voleva aiutare, un così netto diniego.
“Io sono stato” riprende il pittore, rivolgendosi adesso a tutti noi “pressato dal Sindaco e da altri, stamattina, per aprire la mia casa. L’ho fatto. Ma se voi incominciate con questa storia della mostra, ve ne potete andare”.
Dopo questa frase, improvvisamente si calma, accenna un sorriso, chiede scuse per questa sua impennata; porta le mani alla testa, si liscia i capelli. “Alla mia età, alla mia età” dice “ cosa volete voi che m’importi più…”
Si avvicina a una parete stacca un quadro; e porgendolo a Sciascia, in dono: “La conosco e so del suo valore” gli dice “ma il fatto è che desidero rimanere qui, nella solitudine di questo mio paese. Chiedo molto se ho voglia di morire sconosciuto?” E Sciascia, dopo alcuni secondi di silenzio, sospirando e scuotendo la testa: “No lei non chiede molto…”»

Per uno che si è rifiutato, molti altri non si sono lasciati sfuggire l’occasione traendo vantaggio, più o meno consistente e duraturo, dal supporto dell’affermato scrittore.
Occorre ben guardarsi dai falsi appartati, dai petulanti, piagnucoloni, che lamentano sempre scarsa attenzione e frattanto ce li ritroviamo continuamente tra i coglioni, anche in forma delle virtuali maglie della rete informatica.
Il “diniego” è uno schiaffo a tutti quegli imbroglioni inferiori ai quali ci siamo abituati ultimamente, a tutti quei piccoli millantatori e truffatori che cercano la loro ricompensa non nell’ironia o nel gioco del No, ma nei soldi, nel potere, nella vanagloria, nella fama convenzionale: vanitosi, meschini, intriganti, egocentrici, intrattabili invidiosi…
Seneca diceva che la fama è orribile perché dipende dal giudizio di molti.
Per gli incisori del No la fama e le vanità mondane più che orribili sono assurde. Perché la fama, ad esempio, sembra dare per scontato che sussiste un rapporto di proprietà tra un nome e un foglio che invece, appena stampato, conduce già un’esistenza su cui quel pallido nome sicuramente non può più influire. Ogni incisore deve venire dimenticato appena ha smesso di incidere perché quel foglio stampato gli è letteralmente volato dalle mani, è entrato in un contesto di situazioni e sentimenti diversi, risponde a domande che altri uomini rivolgono e che il suo autore non poteva nemmeno immaginare.
Generalmente, come il Bartleby letterario, vivono di un qualche impiego, spesso insegnanti, che passano inosservati, senza alcuna considerazione da parte dei colleghi.
Probabilmente vanno valutati anche gli aspetti patologici riguardanti l’autostima, un certo senso di inadeguatezza culturale, una dose di misantropia e anche qualcosa riguardante la corporeità… ma queste sono diagnosi che competono a un qualche specialista della psiche, io come semplice osservatore appassionato posso limitarmi a considerare che la negazione, la rinuncia, il mutismo sono alcune delle forme estreme con cui si presenta il “malessere”; o forse è solo il semplice desiderio di preservarsi, di non essere disturbato, di dire di no; in poche parole quel lasciatemi tranquillo nel mio cantuccio e girate al largo perché percepiscono come lo sprofondare in una voragine la condizione dell’artista consacrato che deve amministrare il patrimonio della propria immagine pubblica e tenere i contatti con giornalisti, critici, galleristi, curatori…, viaggiare per tenere le mostre… Si richiede una energia vitale, una forza e una convinzione che mancano al Bartleby l’incisore che preferisce non aveva nulla a che vedere con l’ambizione del successo personale, respingendo ogni “Dover Essere” e anche l’amabile apparenza di un modo ipocrita di essere e di rapportarsi con gli altri.
È un caso molto comune quello dell’artista che, pur essendo a volte abilissimo, altre volte è quasi vergognosamente inetto e rifugiarsi completamente nella famiglia e nel lavoro sono due validissimi alibi.
È eroico continuare a lavorare con un chiaro atteggiamento di rifiuto nei confronti del “sistema” e continuare in modo bartlebyano, cioè con un ritmo a bassa intensità come se si preferisse non farlo. Di fronte alla pazienza silenziosa e senza aspettative, le magnifiche certezze dell’attivismo sono destinate a farsi smascherare, vittime della loro ansia.
Il moto di assoluto rifiuto è raro e difficile perché bisogna rifiutare non solo il peggio, ma anche un’apparenza ragionevole, una condizione che si definirebbe per certi aspetti felice.

Mentre lo “sguardo contemporaneo”, sempre più immorale, pretende di scivolare con la più assoluta indifferenza sulle espressioni dei linguaggi dell’incisione e per quanto ci appassioni negare la profonda crisi dell’incisione contemporanea i Bartleby rappresentano anche i testimoni a carico che giurano la verità sulla prognosi grave dell’incisione di questo inizio di millennio.
Quanti autentici Bartleby conosco tra gli incisori italiani?
Ammetto: pochi, in verità pochissimi,  uno però di sublime qualità.
Certamente numericamente inadeguati per trarne statistiche e pronostici, pertanto non mi sento di sostenere che, analogamente a quanto è accaduto in letteratura, dalla pulsione negativa dei Bartleby può derivare una qualche spinta vitale per l’incisione italiana, ma mi piace credere (o illudermi) che setacciando il labirinto del No si possano intravedere altre strade ancora percorribili per l’incisione che verrà.
Come dovrebbe essere tale incisione?
Sinceramente non lo so.
O forse la particolare concezione della realtà contemporanea espressa dall’incisione è già in certe opere che attraversano la storia dell’arte senza l’ambizione di raggiungere alcuna vetta, espressione di una atarassia postmoderna come indifferenza rispetto a tutti i successi possibili.