martedì 6 gennaio 2015

FRANCESCO PARISI

I miei maestri,
le mie xilografie
 «Mon oeuvre n’est pas inspirée par je ne sais quelle grace de Dieu
ou par un amour extraordinaire des gens, mais par l’esprit de refus,
par la haine de ces artist qui ne savent que ramper,
pour lesquel l’art n’est plus qu’un moyen de réeussite sociale
et auxquels je veux montrer de quoi est capable quelcu’un qui aime son travail»

Josef Vachal
A propos de l’art de l’estampe et plus spécialement de la gravure sur bois
Praha 1932


SOLOMON E SHALAMIS – SHIR HASHIRIM, 2013
Fino ai miei 18 anni alla Galleria Nazionale di Valle Giulia si entrava gratuitamente. Ci andavo spesso solo per vedere i nudi della Diana Efesina di Sartorio, per trovarmi accanto allo sguardo allucinato del Sant’Antonio di Domenico Morelli e per immaginarmi la fiamme che avevano avvolto il filosofo nolano di Giulio Bargellini, anche se in quella raffigurazione invece delle fiamme scaturivano ninfe, Meduse decapitate ed il cavallo Pegaso. A quei tempi la Galleria aveva anche una piccola saletta oggi demolita - Cartago delenda est - dedicata all’incisione e al disegno. Vi avevo visto qualche foglio di Fattori, di Dachiardi, di Morandi, di Bartolini, di Signorini, ma quelle minute non mi avevano ancora infiammato, il mio cuore era tutto per le allegorie di Bargellini. Complice del mio iniziale disinteresse per l’incisione era l’aula di grafica di via Ripetta, una sorta di fonderia che serviva solo a consumare inutilmente rame e zinco, ricordo persino un mio collega incidere un grande ritratto di Totti urlante dopo un gol. Ricordo anche l’ironico e vernacolare apostrofare romano del professore di incisione Duilio Rossoni, rivolto ad uno studente che passava le ore di lezione a preparare lastre raschiando i contorni della matrice con una rumorosissima lima, creando un rumore infernale: «ee cchissei Sirvio Pellico?».


NUPTIAE, 2005
LE NOZZE MISTICHE DI ELEN VAUGHAN
STUDIO PER NUPTIAE, 2005




Ho iniziato comunque a «grattare legni» nei primi anni di Accademia in volontario conflitto con il resto dei miei colleghi. Dai miei primi assalti contro il legno con piccole sgorbie cinesi molto economiche risultarono una serie di figure che non rispondevano alla mia volontà di dotarle di quelle linee sottili e avvolgenti che avevo visto in un libro che Rossoni custodiva nel cassetto della sua scrivania. Ricordo ancora quando gli regalai la mia prima prova ricambiata con quel prezioso manuale degli anni Trenta, La moderna xilografia in Italia di Luigi Servolini. Duilio era comunista, Servolini fascista, ottimo acquafortista il primo, modesto xilografo l’altro, ma “fascistissimo” ed essere “fascistissimo” negli anni Trenta significava avere cattedre, scrivere e pubblicare libri, vendere ai musei ed esserne direttore, quando uno come Luigi Bartolini vendeva si e no qualcosa presso i corniciai romani (ho un catalogo di vendita di una mostra di quegli anni: una xilografia di Servolini costava 150 lire, una acquaforte di Bartolini solo 70). In quel libro Servolini aveva inserito tutti i grandi xilografi italiani, da Cambellotti a De Carolis, da Morbiducci a Da Osimo, da Attilio Giuliani a Italo Zetti. Dopo aver visto una Vesta che attizza il fuoco sacro sotto una splendida quercia di Cambellotti avevo praticamente deciso di abbandonare la pittura e di dedicarmi a tempo pieno alla xilografia. Mi si era aperto un intero universo, Duilio si liberò invece di quel volume come ci si libera di un vestito usato e fuori moda. Non gli dissi mai quanto quel suo gesto condizionò tutte le mie scelte successive.
IRIS, 2007
Il mondo di quel libro era però perso per sempre, gli esempi da seguire e le vite da imitare si potevano trovare solo nei volumi da cercare in qualche negozio d’antiquario. Come un pesce che risale la corrente inseguivo nelle biblioteche e nelle librerie le pagine dimenticate di vecchie riviste con le xilografie originali o riprodotte, guardavo le foto di questi maestri al loro tavolo di lavoro e allestivo il mio studio – una modesta stanza in un piccolo appartamento nel quartiere Prati – nello stile di ottanta anni prima, con tanto di sedia Savonarola ammirata nello studio di Cambellotti, ma scomodissima.
Seppur orfano di “padre” – non in senso letterale, ovviamente, ma di una guida – e nonostante i miei maestri ideali fossero oramai tutti morti, gli eredi erano pur sempre disponibili a mostrare lo studio paterno ad un giovane artista. Avevo, infatti, bisogno, oltre che delle pagine stampate, di respirare almeno l’aria che li aveva circondati, di ammirare le stesse prospettive, di sfiorare i loro strumenti di lavoro sperando in un’immaginaria quanto improbabile trasmissione osmotica di capacità. Ho potuto vedere così le sgorbie di Cambellotti, le matrici di De Carolis, gli zinchi di Sartorio, ho avuto in regalo i bulini di Attilio Giuliani con cui ancora adesso incido e ho sfogliato nello studio di Morbiducci, immerso tra le sue sculture, le preziose cartelle con centinaia di disegni, studi di nudo, volti maschili e femminili, delineati con brevi ma sicuri tratti, quasi un manuale di anatomia, meglio di Andrea Vesalius.
ANARCADIA, 2008
Ma né gli strumenti né i tavoli da lavoro ricostruiti nel mio studio potevano restaurare le atmosfere di allora, inimitabili: De Carolis a colloquio con D’Annunzio durante l’occupazione di Fiume, Attilio Giuliani sommergibilista durante l’attacco nel porto di Alessandria, Cambellotti a passeggio nella campagna romana con Sibilla Aleramo e Giovanni Cena, Sartorio a Weimar a scambiare opinioni sulla pittura con Von Stuck. Il mio professore di pittura al massimo parlava di Caravaggio con accento abruzzese, e mai fece il seppur minimo cenno al pittore di Monaco, alla sua splendida villa né, tanto meno, alle sue splendide acqueforti.
Rossoni aveva invece affrescato insieme a Ferrazzi il mausoleo di Aqui con le scene dell’Apocalisse, aveva imparato a dipingere nello studio di Ziveri – che ancora negli anni Cinquanta insegnava a dipingere la modella senza tener conto di certe “stravaganti” teorie – aveva inciso con Ciarrocchi tante lastre sedendo con lui lungo i declivi marchigiani, era stato assistente di un calcografo come Bianchi Barriviera e di uno xilografo come Mino Maccari, aveva modellato fontane con Leoncillo e conversato amichevolmente con Luzi e Bilenchi. La mia presunzione lo doveva aver colpito un giorno a lezione quando gli parlai di Bargellini come del più grande pittore italiano di tutti i tempi, addirittura meglio di Raffaello che allora non capivo. Duilio conosceva bene l’opera di Bargellini, gliene aveva parlato Ziveri che apprese la tecnica dell’affresco lavorando come suo assistente per gli affreschi della Banca d’Italia. Almeno con Duilio avevo trovato una linea diretta che, nella mia ingenua presunzione di studente, mi legava al mio eroe di allora: Bargellini-Ziveri-Rossoni-Parisi. Solo che Duilio non dipingeva come Bargellini, anzi quasi neanche dipingeva, incideva solo all’acquaforte e di nudi non ne voleva sentir parlare, solo di paesaggi marchigiani, di alberi e vallate. Più tardi ne avrei anche capito il valore, ma per il momento a me interessava solo il nudo e l’allegoria più complessa. Di incidere bottiglie e alberi su metalli proprio non ne avevo la benché minima intenzione, avevo già in mente la mia prima serie organica di xilografie. Il tema prescelto era una eterogenea combinazione tra contadini ed eroi dell’antichità, il miles agricola in chiave omoerotica. Li avevo derivati, quei contadini seminudi, dai dipinti ad olio di Oskar Martin Amorbach, pittore della secessione di Monaco, traducendoli su legno. Mi ricordo quando regalai a Duilio la prima prova della serie, lui la sdegnò e la giudicò esteticamente impraticabile.

PASIPHAE-SHEMOT, 2009

Incidendo quelle prime xilografie con le difficoltà tecniche di un principiante avevo provato un’emozione simile a quella estatica degli incisori ed illuminatori medievali pieni di fede che incidevano nel legno per ornare i vangeli, anche se il mio, di vangelo, era già allora meno santo.
A Duilio non stavo simpatico, credo gli desse molto fastidio l’arroganza di un ventenne che si riteneva più bravo di lui, pure mi indicò alla classe come l’unico giovane dalle idee chiare, idee sbagliate ma chiare, provocando da parte di qualche “povero asino” quell’invidiuzza innocua. Di parlare di tecnica xilografica, però, proprio non ne voleva sapere. Lui, acquafortista, vagheggiava sulle preziosità di Callot e di Goltzius e non era interessato, diceva, all’ebanisteria.

PANTOCRATOR, 2010
Ho cercato, dunque, uno xilografo che mi desse udienza – merce rara in quegli anni di litografi e serigrafari – e grazie ad un amico ho incontrato Sigfrido Bartolini, dal quale ho appreso qualche trucco del mestiere. Gli invidiavo l’anno di nascita, la prima edizione dei Canti Orfici, una dedica di Francesco Nonni attestante il fatto i due si fossero almeno incontrati, la possibilità che gli si era presentata di poter illustrare un libro e di averci potuto impiegare più di un decennio ed infine l’essersi comperato una casa ottocentesca coi proventi di una sola cartella di grafica. Sigfrido aveva avuto come padre spirituale Ardengo Soffici, cui le mie xilografie non sarebbero piaciute, e come non sarebbero piaciute a Soffici così non piacquero nemmeno a lui. Conservo una sua lettera in cui mi scriveva: “non sei antico come Düre e Soffici che erano moderni, sei solo vecchio come De Carolis”.
PROSERPINE IN HELL, 2010
Il più importante esempio per la mia vita da artista e da xilografo l’ho avuto invece da Umberto Franci della scuola del libro di Urbino, quella scuola dove durante l’age d’or di Castellani se si veniva trovati a dipingere piuttosto che ad incidere venivano immediatamente comminate severe pene corporali.
Franci lavora ancora tutti i giorni, dice che non riesce proprio a non farlo: alle pareti conserva i lavori di una vita, sul tavolo i fogli appena disegnati, matrici e schizzi, carboncini e acquerelli, «ah sì, quella l’avrò fatta almeno una ventina d’anni fa» ed invece era il 1937. Nelle mie visite si racconta, spiega, ricorda i suoi amici che per me hanno il sapore dell’eroe mitologico, parla del suo amico Antonello Moroni e di quando andavano assieme a pescare, del suo maestro Delitala, quando gli ho chiesto della misteriosa tecnica di Ettore de Giorgio mi ha risposto enigmatico con la stessa frase che il maestro gli diede quando lui stesso gli pose la medesima domanda: «io ho faticato tanto, fatica anche tu».
PROSERPINE IN HELL 2, 2010
SHULAMIS – SHIR HASHIRIM, 2014















Nel suo studio di Urbino oltre mezzo secolo di storia sembra niente. Una volta gli chiesi quale era la formula per realizzare delle opere degne e lui, parafrasando Napoleone («per fare le guerre ci vogliono soldi, soldi, soldi»), mi rispose sorridendo: «disegnare, disegnare, disegnare».
L’insegnamento più intimo e profondo me lo ha dato a 98 anni: «spero di arrivare a 100 riuscendo ancora a disegnare e ad incidere perché dopo non c’è niente, dio non esiste!».
Raramente parlo delle mie incisioni. Come già mi si rimproverava ai tempi dell’accademia, mi si fa torto ora di essere eccessivamente “passatista”. E veramente, ancora oggi, deve suscitare turbamento questa definizione se molti addirittura si rifiutano di guardare le mie stampe anche solo per furore polemico.

LAMED VAV, trittico, 2012-2013
La mia ammirazione per gli artisti del passato non rappresenta un modo sbrigativo di celarsi in poetiche altrui per accidia, quanto esprime invece la volontà di situarsi in un medesimo atteggiamento umano e intellettuale. «Me ne infischio di tutti» come il Luigi dei Ladri di Biciclette «e prendo dall’antico e dal nuovo, ovunque trovo cosa che faccia per me».
FRANCESCO PARISI, 2014


ACELDAMA, 2003

NOTA A MARGINE











Sperando di non interferire troppo con il testo originale dell'artista mi riservo solo questa breve considerazione conclusiva.
Il desiderio di questo blog di ricevere le parole dirette degli artisti pare costituisca una pretesa che pochissimi sono in grado di assecondare. Si scambia il blog per un tram con fermata a richiesta e non si comprende che non si pretendono giustificazioni o autocritica né proclami o manifesti teorici di poetica... semplicemente sentirsi raccontare quel qualcosa che chissà quante volte è stato ripetuto ospitando un visitatore nel proprio atelier.

Francesco Parisi ha rievocato gli anni della sua formazione e i primi incontri, accompagnandoli con alcune delle xilografie realizzate negli ultimi dieci anni che sono state tutte intagliate a bulino su legno di testa, di bosso e pero, e stampate manualmente su carte giapponesi tramite la stecca di bosso - come ci riferisce l'artista - "...per controllare ogni linea e distribuire quelle piccole veriazioni di nero che rendono meno fredda una xilografia".
È naturale che all'occhio critico dello stesso autore le prime opere possano apparire superate per molti aspetti, ma dal punto di vista documentario esse rappresentano imprescindibili testimonianze, pertanto, considerando il periodo e le circostanze narrate nel testo, non poteva mancare uno sguardo alle opere coeve e grazie alla cortese concessione dell'artista pubblichiamo "Cerveteri" una delle primissime xilografie realizzate, databile al 1994.
Parisi, dopo qualche prova scolastica calcografica, rivolge tutto il suo interesse alla xilografia che diviene non solo la sua forma espressiva prediletta, ma anche oggetto di studio e indagine storica che lo ha portato, tra l'altro, a curare i cataloghi dell'opera grafica di Cambellotti e Morbiducci.
CERVETERI, 1994

In "Cerveteri" l'uso delle sgorbie connotano un linguaggio molto diverso dagli sviluppi che avrà nella opere successive caratterizzate dalla virtuosa sottigliezza di un segno lineare e anche il soggetto sembra appartenere ad un altro ambito di ricerca figurativa, ma è mia opinione che proprio a questa incisione, che raffigura la Necropoli della Banditaccia dell'antica città etrusca, si annoda già il ruolo fondativo che Parisi attribuisce al mito nell'elaborazione della sua arte. I miti alludono ad un substrato comune, all'archetipo, a tutto ciò che, oltre la mera soggettività, può convertirsi in veicolo o luogo di incontro per una cultura e quindi per la sua arte.
Ah, l'arte! L'arte che non serve a nulla e che salva! L'arte che non sta in parlamento perché non è votata. L'arte che esiste mentre tutto fugge. La vita fugge, l'attraversiamo e fugge e fugge anche il suo fatale complemento: la morte fugge, ci afferra e fugge.
Eppure la mano corre sicura sulla matrice, guida il bulino, perchè tutto si può raccontare, tutto si può ancora rappresentare e ci restano i racconti e le immagini. Ci resta il mito e ci restano le incisioni di Francesco Parisi che ci auguriamo di poter ospitare ancora con le sue splendide edizioni illustrate.
TEHIRU ELA’AH, 2013