lunedì 7 novembre 2016

CONTRO GLI INCISORI

Calata la celata e lancia in resta ho spronato il mio Ronzinante al galoppo contro i mulini a vento (o le pale eoliche) ed ho immaginato qualcosa di scorretto (se no che immaginiamo a fare?) attaccando alle spalle gli incisori italiani contemporanei (in altri posti forse accade diversamente, non so se meglio o peggio).
Gli incisori italiani sono da tempo prigionieri, fino a una inconsapevole autoparodia, dei propri patetici miopi narcisismi che niente hanno a che fare con un'arte che conta.
Troppo inclini ad assumere la maschera autonobilitante della fedeltà alla tradizione, oppure come parodie di artisti maledetti d'avanguardia, hanno il vezzo inguaribile di riproporci ancora e sempre un immaginario omologato, globalizzato, dominio assoluto della banalità. Ciecamente impegnati nello sforzo sterile e solipsistico di aggiungere segni a segni per sfornare capolavori annunciati, inattuali e ininteressanti, che stentano a simulare come opere d'arte.
Li vedo nelle loro risibile fatica sprecata in un interminabile autoreferenziale proporsi come caricature miseramente aggiornate di custodi della nobile arte dell'incisione. Ogni incisore italiano, tradizionalista dégangés o neoavanguardista engagés, sa di far parte di un mondo terminale e di rivolgersi a un decrescente pubblico di "interessati".
Da più di centocinquant'anni, con le prime avvisaglie e poi con il pieno sviluppo della società di massa, gli artisti (e gli inciosri in coda) hanno imboccato due strade. La prima è stata quella di costituirsi in avanguardia, organizzandosi con i metodi della moderna industria culturale e della pubblicità. Nelle forme più sincere l'avanguardia è stata secessione, critica delle forme paludate e finto-sublimi, parodia, destrutturazione...
La seconda strada è quella dell'abbassamento retorico, della prosaicità, di un'arte che cerca di ricucire lo strappo, oscillando fra un realismo domestico e un'innoccenza manieristicamente simulata.
Insomma: o le astruserie o le banalità. Ma l'alternativa è brutale quanto puramente teorica, visto che gli opposti si abbracciano solidali generando il vasto mare di tutti i vari possibili incroci.
Vedo precisarsi sempre meglio davanti ai miei occhi i contorni di una famiglia artistica di incisori che divorano ogni alterità e in ogni loro foglio restituiscono un "etimo" monolitico e replicabile all'infinito. Sono artisti apparentemente diversi per qualità, anagrafe e storia che tuttavia provocano una comune ricezione acritica nell'adesione come nel rifiuto.
La propria poetica pretendono di mimarla (o menarla) di continuo, così che buona parte della loro opera evoca una gigantesca cornice di un quadro che non c'è.
Queste soluzioni mistificate finiscono spesso per comunicare all'osservatore un senso quasi metafisico di noia: anche quando si è in presenza di un gran dispendio di virtuosismi si ha la sensazione che le doti conoscitive e rapresentative si atrofizzino in un linguaggio ridotto a sontuosa stilizzazione.
Le opere nate da una simile illusione tendono, a volte, a rovesciare le disperate afasie contemporanee in euforica logorrea.
All'opposto la retorica del rischio della trasgresione appare oggi troppo poco rischiosa, in un'epoca che della modernità conserva appena un estetismo epigonale.
L'esile dialettica interna s'impunta ancora su capziose distinzioni: Biano e Nero / Colore; Figurativo / Astratto; La Crociata Atossica... mentre nell'ambito più generale si ripropone la stessa sterile contrapposizione dell'arte contemporanea: da un canto si è sclerotizzata un'idea analgesico, palliativa dell'incisione quasi come pratica new-age; mentre nel canto opposto sono gli incisori-martiri che vogliono aprire ferite, squarciare veli e imeni (immagino mentali), falsi appartati, autori di lutulenti lastre tremendiste tutte vomito e brandelli di carne... nessuno li compra, ovvio, e si ritengono incompresi.
I canoni mediatico-accademici insegnano a non dubitare, del resto abbiamo alle spalle un secolo in cui il fanatismo estetico non è stato da meno di quello politico. Ma oggi le poetiche del Novecento sono morte o ridotte a decorazione vintage. La lotta non è più "ideologica" nell'usurato e inesatto senso del termine: non riguarda né artisti organici né torri eburnee cariate.
Resta la classica questione: che fare?
Come contrastare, sabotare, intralciare l'andazzo dominante, opporsi a questo trend?
Ricette, nonostante i mille cuochi in tivvù, non ce ne stanno.
Naturalmente ci sono ancora artisti antidoto: antibiotici o analgesici è da vedere.
Quel che avete letto è proprio quello che sembra: uno sfogo, un'invettiva...
Mettiamola così: più che arrabbiato, indignato, furioso, disgustato (lo sono stato, tornerò forse ad esserlo?), il presente mi suscita dispetto e uno non se la cava solo con l'ironia. Il sarcasmo, le boutades...
La diagnosi è impietosa, non mi faccio illusioni sul presente e sullo stato dell'arte nel nostro paese, ce l'ho con tutti, o quasi, ma ai miei bersagli negherò l'onore di comparire con le proprie generalità.
Tutto questo può apparine solo un inutile arrovellarsi superficiale e frivolo mentre l'Istat fotografa un'Italia "sciapa e infelice" raggrumata attorno ad una crisi generale che si capillarizza in fallimento individuale e morale e la "crescita zero" in era renziana ci pare una buona notizia.
Confido nella possibilità di liberare la verità dall'ideologia, nell'artista come nel "critico" capace di raccordare idee ed esperienze. L'idea che nell'indivuduo ancora si nasconda un quid imponderabile, un nucleo non interamente clonabile, un residuo fisso che si oppone a qualsiasi tentativo di omologazione culturale, nella speranza che ci sia ancora spazio per l'utopia concreta del linguaggio poetico.
Riconciliarmi con l'oggi guardando agli artisti del passato è soluzione di comodo, è facile, troppo facile, ed è una modalità nella quale mi rifuggio, ma quel che mi interessa è cercare di cogliere, nel frastuono assordarte dell'oggi, una voce: un canto o un urlo...chissà.
Agli incisori che ancora cercano di immaginarsi come artisti contemporanei, allora, spetta una vita interstiziale, di estrema sobrietà, di castità guardinga, di allegrie e severità provate nell'intimo. Una vita intensamente personale, espansione di un Sé orientato verso l'esperienza vissuta, verso l'incontro con persone concrete. È la strada più difficile, la meno appariscente, la più sincera.
L'esercizio indefesso dell'incisione resta un'opera di fedeltà, di ascolto, una comunione diffidente e aspra, un ordine da riformulare in accenti nuovamente veri, una sintassi che sia pensiero, ma non qualcosa di misurabile nei termini complementari del progresso o del regresso.
Da parte mia posso solo invitare ogni incisore, prima di iniziare ad incidere la prossima lastra, a comprendere chi è, storicamente e socialmente, senza delimitare temi e forme comunicative.
L'incisore/artista contemporaneo deve stare al mondo con onestà e questo vuol dire non poter predeterminare, né con foga né con calcolo, i modi della sua vita e della sua partecipazione. Altrimenti ricade negli astratti doveri e negli astratti furori; divide la verità personale da quella che spaccia per collettiva; lavora a ciò che fa evadere altri; cerca ossessivamente il presente, perdendone l'infinito spessore temporale e al sua consustanziale inattualità.