martedì 13 dicembre 2016

IL CHIODO FISSO E LA CRESTA DELL'ONDA

V. Piazza
ONDA SU ONDA
acquaforte 2011
mm 190 x 240






Quando si ha un "chiodo fisso" tutto, dal più banale episodio della quotidianità al più tragico degli eventi globali, viene agganciato al quel chiodo.
Questo post nasce da un cortocircuito innescato da un vecchio post che prendeva spunto dalla e-mail di uno studente che, per far conoscere le proprie incisioni, invitava a visitare il proprio sito internet.
Un'incisione "È" un'incisione quando è stampata sulla carta e perciò è qualcosa di stabile e di tattile e potrei elogiare, ancora una volta, il piacere, anche erotico, di osservare, toccare e annusare una stampa.
Possiamo anche dire che le incisioni sono un piccolo monumento, sono qualcosa che si erge contro il tempo, sono come piccole piramidi di Cheope (sebbene anch'esse non durano nel tempo) che affondano nella sabbia del deserto che più le copre e più le protegge. Anzi, per restare nella metafora funeraria, direi meglio che oggi un'incisione è una pietra tombale che dice: qui giace, sepolta tra i segni, l'anima benedetta di Tizio o Caio (sempre che sia un'incisione nata dall'anima e non da un corso dell'Associazione PassaTempo) e sono ammessi gesti scaramantici.
Ognuno nella propria casa ha un piccolo cimitero di lapidi o di anime, perché l'anima non emigra da nessuna parte, sta dove c'è la sua lapide ed essendo l'incisione un oggetto duplicabile anche l'anima si è adattata alla duplicazione.
Invece un'incisione postata in rete cos'è? Un'incisione che si può vedere solo proiettata virtualmente, senza quel piacere tattile che ricordavo?
Avete provato ad annusare uno schermo?
Beh direi che è un essere insepolto poiché non c'è un sarcofago per le sue spoglie, non c'è un'urna per le sue ceneri e non c'è una lapide piantata a terra.
Un'incisione, e anche uno scritto come questo, solo in rete ricordano i morti annegati nel mare. Un mare (quello elettronico) che non è mai agitato, non ha tempeste, si stende immobile, ma inghiotte tutto. A volte un corpo si arena su una spiaggia insieme a tanti relitti di naufragi, ma si arena dove nessuno lo riconosce più.
In rete ci sono (ci siamo) solo cadaveri in decomposizione e naufraghi, tantissimi naufraghi, che per un po' restano (anzi restiamo, ma ancora per poco) vivi e parlanti; alcuni siamo imbarcati su delle scialuppe, ma non remiamo, è inutile perché è tanto grande il mare che ci si lascia portare dal vento e dalle correnti; spesso il flusso porta ad incontrare altri naufraghi, ci si scambiano dei segni, ci si saluta…
Poi anche le scialuppe si sfasciano e qualcuno per un po' vive ancora attaccato a qualcosa di galleggiante continuando a salutare, ma senza nessuno che possa prenderci a bordo.
Il mare è pieno di resti, anche di cose utili che qualcuno camminando sul litorale dopo una mareggiata recupera, ma noi naufraghi quando ci areniamo siamo già cadaveri.
Per concludere questa sconclusionata considerazione, niente vieta di mettersi in mare, scusate intendevo dire niente vieta di mettersi in rete, on line per dirla bene, con le proprie incisioni e la rete esercita tanta attrazione ed esaltazione appunto perché è come il mare dove chiunque ci si metta a bagno può galleggiare e se uno è stronzo galleggia anche meglio.
Però si sappia che, alla lunga, si annega e si muore; si può replicare che questo è un fatto che comunque non si può evitare e tanto vale, almeno una volta prima di morire, provare a brillare come sulla cresta di un'onda.

lunedì 12 dicembre 2016

FALSERÒ LA LEGENDA

Max Klinger
Die Schlange ( il serpente)
acquaforte e acquatinta 1898, mm 295 x 160









Ho iniziato a scrivere per me solo, certo, non perché io sia mai stato il mio unico lettore, ma perché scrivo per raccontare a me stesso, come se fossi un altro, le cose che penso, forse già con la segreta intenzione di trarne incitamento alla mia vaga volontà di non scrivere mai più: utopica ambizione di un uomo privo d'immaginazione come me.
Ormai l'assuefazione all'identità eteronima è tale che mi sono guardato allo specchio e non mi sono riconosciuto.
Il mio viso è solcato da una miriade di piccole rughe, avvicinandomi allo specchio per analizzarle meglio, mi sono reso conto che si tratta di segni. Sono i segni delle tante incisioni che ho osservato e analizzato con l'uso del contafili ad essersi tatuati sulla mia pelle.
Esprimendo con la scrittura il mio interesse per l'incisione sono diventato sensibile a complessità di cui non mi ero mai accorto prima.
Adesso devo prendere atto che è stato tutto uno sbaglio, un equivoco, un'incomprensione: questo non è il blog di un appassionato di incisioni che scrive di incisioni, come io credo di essere.
Non è il blog di un noto critico che qui può dire quel che gli obblighi sociali impongono non venga detto chiaramente, o del professore serioso che nel blog ritrova il senso dell'ironia, come gli altri sospettano che io sia.
Questo blog è la sublimazione dell'essere io stesso un'incisione e in parte, in cattiva parte, ci sono riuscito.
Una spessa lastra di rame dove è possibile leggere tutti gli interventi: incisa all'acquaforte, ritoccata a brunitoio e bulino…
Il problema è che da questa lastra non è mai stata tratta alcuna prova di stampa, ma non si creda che per il fatto di non essere stato stampato il mio essere lastra sia un emerito niente, al contrario la mia tiratura è come sospesa sopra l'arte universale.
Come qualunque acquaforte, mediamente ben fatta, sono tutto necessità, basto a me stesso, sono tecnica e contenuto.
Mi è venuto da pensare a quello che diceva Baudelaire: che il vero eroe è chi si diverte da solo, ma io non sono solo, sono sottomesso a quel tormentato tiranno, a quel "Grande Fratello" insonne, onnisciente e onnipresente che giudica e condanna senza concedere attenuanti.

giovedì 1 dicembre 2016

RESISTERE! RESISTERE?...

Non occorrono tante parole, sono le copertine degli unici cataloghi di vendita rimasti che, oggi in Italia, propongono incisioni di artisti contemporanei:
LE MUSE, PRANDI. 




















Cataloghi a stampa, spediti per posta, niente di virtuale, tutto concretezza e sostanza... Coraggio e Ostinata Resistenza.




lunedì 7 novembre 2016

CONTRO GLI INCISORI

Calata la celata e lancia in resta ho spronato il mio Ronzinante al galoppo contro i mulini a vento (o le pale eoliche) ed ho immaginato qualcosa di scorretto (se no che immaginiamo a fare?) attaccando alle spalle gli incisori italiani contemporanei (in altri posti forse accade diversamente, non so se meglio o peggio).
Gli incisori italiani sono da tempo prigionieri, fino a una inconsapevole autoparodia, dei propri patetici miopi narcisismi che niente hanno a che fare con un'arte che conta.
Troppo inclini ad assumere la maschera autonobilitante della fedeltà alla tradizione, oppure come parodie di artisti maledetti d'avanguardia, hanno il vezzo inguaribile di riproporci ancora e sempre un immaginario omologato, globalizzato, dominio assoluto della banalità. Ciecamente impegnati nello sforzo sterile e solipsistico di aggiungere segni a segni per sfornare capolavori annunciati, inattuali e ininteressanti, che stentano a simulare come opere d'arte.
Li vedo nelle loro risibile fatica sprecata in un interminabile autoreferenziale proporsi come caricature miseramente aggiornate di custodi della nobile arte dell'incisione. Ogni incisore italiano, tradizionalista dégangés o neoavanguardista engagés, sa di far parte di un mondo terminale e di rivolgersi a un decrescente pubblico di "interessati".
Da più di centocinquant'anni, con le prime avvisaglie e poi con il pieno sviluppo della società di massa, gli artisti (e gli inciosri in coda) hanno imboccato due strade. La prima è stata quella di costituirsi in avanguardia, organizzandosi con i metodi della moderna industria culturale e della pubblicità. Nelle forme più sincere l'avanguardia è stata secessione, critica delle forme paludate e finto-sublimi, parodia, destrutturazione...
La seconda strada è quella dell'abbassamento retorico, della prosaicità, di un'arte che cerca di ricucire lo strappo, oscillando fra un realismo domestico e un'innoccenza manieristicamente simulata.
Insomma: o le astruserie o le banalità. Ma l'alternativa è brutale quanto puramente teorica, visto che gli opposti si abbracciano solidali generando il vasto mare di tutti i vari possibili incroci.
Vedo precisarsi sempre meglio davanti ai miei occhi i contorni di una famiglia artistica di incisori che divorano ogni alterità e in ogni loro foglio restituiscono un "etimo" monolitico e replicabile all'infinito. Sono artisti apparentemente diversi per qualità, anagrafe e storia che tuttavia provocano una comune ricezione acritica nell'adesione come nel rifiuto.
La propria poetica pretendono di mimarla (o menarla) di continuo, così che buona parte della loro opera evoca una gigantesca cornice di un quadro che non c'è.
Queste soluzioni mistificate finiscono spesso per comunicare all'osservatore un senso quasi metafisico di noia: anche quando si è in presenza di un gran dispendio di virtuosismi si ha la sensazione che le doti conoscitive e rapresentative si atrofizzino in un linguaggio ridotto a sontuosa stilizzazione.
Le opere nate da una simile illusione tendono, a volte, a rovesciare le disperate afasie contemporanee in euforica logorrea.
All'opposto la retorica del rischio della trasgresione appare oggi troppo poco rischiosa, in un'epoca che della modernità conserva appena un estetismo epigonale.
L'esile dialettica interna s'impunta ancora su capziose distinzioni: Biano e Nero / Colore; Figurativo / Astratto; La Crociata Atossica... mentre nell'ambito più generale si ripropone la stessa sterile contrapposizione dell'arte contemporanea: da un canto si è sclerotizzata un'idea analgesico, palliativa dell'incisione quasi come pratica new-age; mentre nel canto opposto sono gli incisori-martiri che vogliono aprire ferite, squarciare veli e imeni (immagino mentali), falsi appartati, autori di lutulenti lastre tremendiste tutte vomito e brandelli di carne... nessuno li compra, ovvio, e si ritengono incompresi.
I canoni mediatico-accademici insegnano a non dubitare, del resto abbiamo alle spalle un secolo in cui il fanatismo estetico non è stato da meno di quello politico. Ma oggi le poetiche del Novecento sono morte o ridotte a decorazione vintage. La lotta non è più "ideologica" nell'usurato e inesatto senso del termine: non riguarda né artisti organici né torri eburnee cariate.
Resta la classica questione: che fare?
Come contrastare, sabotare, intralciare l'andazzo dominante, opporsi a questo trend?
Ricette, nonostante i mille cuochi in tivvù, non ce ne stanno.
Naturalmente ci sono ancora artisti antidoto: antibiotici o analgesici è da vedere.
Quel che avete letto è proprio quello che sembra: uno sfogo, un'invettiva...
Mettiamola così: più che arrabbiato, indignato, furioso, disgustato (lo sono stato, tornerò forse ad esserlo?), il presente mi suscita dispetto e uno non se la cava solo con l'ironia. Il sarcasmo, le boutades...
La diagnosi è impietosa, non mi faccio illusioni sul presente e sullo stato dell'arte nel nostro paese, ce l'ho con tutti, o quasi, ma ai miei bersagli negherò l'onore di comparire con le proprie generalità.
Tutto questo può apparine solo un inutile arrovellarsi superficiale e frivolo mentre l'Istat fotografa un'Italia "sciapa e infelice" raggrumata attorno ad una crisi generale che si capillarizza in fallimento individuale e morale e la "crescita zero" in era renziana ci pare una buona notizia.
Confido nella possibilità di liberare la verità dall'ideologia, nell'artista come nel "critico" capace di raccordare idee ed esperienze. L'idea che nell'indivuduo ancora si nasconda un quid imponderabile, un nucleo non interamente clonabile, un residuo fisso che si oppone a qualsiasi tentativo di omologazione culturale, nella speranza che ci sia ancora spazio per l'utopia concreta del linguaggio poetico.
Riconciliarmi con l'oggi guardando agli artisti del passato è soluzione di comodo, è facile, troppo facile, ed è una modalità nella quale mi rifuggio, ma quel che mi interessa è cercare di cogliere, nel frastuono assordarte dell'oggi, una voce: un canto o un urlo...chissà.
Agli incisori che ancora cercano di immaginarsi come artisti contemporanei, allora, spetta una vita interstiziale, di estrema sobrietà, di castità guardinga, di allegrie e severità provate nell'intimo. Una vita intensamente personale, espansione di un Sé orientato verso l'esperienza vissuta, verso l'incontro con persone concrete. È la strada più difficile, la meno appariscente, la più sincera.
L'esercizio indefesso dell'incisione resta un'opera di fedeltà, di ascolto, una comunione diffidente e aspra, un ordine da riformulare in accenti nuovamente veri, una sintassi che sia pensiero, ma non qualcosa di misurabile nei termini complementari del progresso o del regresso.
Da parte mia posso solo invitare ogni incisore, prima di iniziare ad incidere la prossima lastra, a comprendere chi è, storicamente e socialmente, senza delimitare temi e forme comunicative.
L'incisore/artista contemporaneo deve stare al mondo con onestà e questo vuol dire non poter predeterminare, né con foga né con calcolo, i modi della sua vita e della sua partecipazione. Altrimenti ricade negli astratti doveri e negli astratti furori; divide la verità personale da quella che spaccia per collettiva; lavora a ciò che fa evadere altri; cerca ossessivamente il presente, perdendone l'infinito spessore temporale e al sua consustanziale inattualità.

lunedì 31 ottobre 2016

COME TI VORREI

《... Ecco dunque l'unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare il alto (per noi è per gli altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira basso. Rinceffargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza.
Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi alla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno Grazia sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo...》

Breve estratto da una lettera, non di Onorio Del Vero, ma di don Lorenzo Milani a don Ezio Palombo, Barbiana 25/03/1955.
Luigi Bartolini, LO STUDIO (UOMO CON GRILLI IN TESTA) acquaforte, 1942 mm 152 x 100

Sentiamo continuamente deplorare la scomparsa della critica d'arte, ovvero la scomparsa di un giudizio chiaro, inesorabile e puro. Si auspica un'intelligenza lucida, chiara e altera, che esamini con distacco, un'intelligenza che guardi agli artisti e non a sé stessa, misurata e implacabile nei confronti delle opere nel definirne vizi ed errori.
Ma affinché possa esistere un'intelligenza di questa specie, dovremmo tutti avere nel nostro spirito una lucidità e una purezza di cui tutti oggi siamo privi, di cui è priva la società, e non può aver vita fra noi un essere troppo differente da noi stessi, troppo differente dalla società nella quale è stato generato.
L'artista dal critico si aspetta (e non ha mai) un giudizio che lo aiuti ad essere più fortemente quel che già è, si aspetta benevolenza, come qualcosa che gli sia dovuto e se non la ottiene si sente incompreso, perseguitato, vittima di un odio ingiusto e pronto a scorgere nel critico qualche fine spregevole.
Se l'artista è amico del critico, o se semplicemente si sono a volte incontrati scambiando qualche parola, l'amicizia o quegli incontri sporadici lo fanno certo che il giudizio del critico sarà lusinghiero; e se non è così, e al posto del giudizio positivo ne ha invece una stroncatura spietata, o più spesso soltanto silenzio, l'artista precipita in uno stupefatto sconforto, per poi subito infiammarsi di velenoso rancore, come se la vera o presunta amicizia o i rari incontri gli avessero dato diritto a un favore eterno. Perché il nostro malcostume sociale porta a chiedere all'amicizia, o anche ad un semplice sorriso di cortesia, non già un giudizio sincero ma l'immediato vantaggio.
I giudizi della critica sono, per lo più, intrisi di simpatia o antipatia, di affetto o di odio. A volte si tratta di simpatia o antipatia personale; a volte la simpatia o l'antipatia sono rivolte non al singolo artista, ma alla corrente alla quale si ritiene appartenga.
La simpatia altrui è sempre molto gradita, si gode, per qualche istante, di una profonda sensazione di benessere, ma sfumata questa sensazione gli interrogativi sulla qualità del proprio lavoro si ripresentano uguali a prima.
L'antipatia altrui dispiace, immediatamente si reagisce con altrettanta antipatia, il dubbio di essere inutili e il dubbio che siano "cose inutili" i malevoli giudici, si aggrovigliano e si finisce per detestare insieme sé stessi, la critica e la vita intera.
La critica rappresenta un'altra delusione, quando si avverte nella sua scrittura, solo un pretesto per la costruzione letteraria. Quando, già a distanza, se ne avverte l'odore, si estingue immediatamente la fede nel giudizio anche se tale giudizio si mostra adorno di eleganza. L'eleganza, le raffinatezze di stile del critico non sono affatto utili all'artista: può ammirarle, ma non sa che farsene.
Certo al critico non dovrebbe importare nulla delle reazioni dell'artista, se avesse la chiara coscienza di aver pensato e scritto giustamente. Ma i critici sono oggi fragili, nevrotici e ipersensibili. Temono di trovarsi da soli a dire il vero, oppure aspirano ad essere odiati come condimento piccante della loro esistenza. Desiderano ammantarsi di odio, come una luccicante divisa e l'aspirazione all'odio, sfoggiato come una civetteria sociale, così come la paura dell'odio, non può costituire un saldo basamento per la ricerca e l'affermazione del vero.
Una cosa che ritengo non dovrebbe mai fare un artista, è dolersi fuori di misura per le critiche negative o, più di frequente, per il silenzio che ricadono sulla sua opera. L'attribuire una smisurata importanza al riscontro dell'opera, rivela nell'artista una mancanza d'amore per l'opera e per sé stessi. Se l'artista ama veramente il suo lavoro, e non fa l'artista solo come mezzo di affermazione (sociale, economica... prestigio, orgoglio, vanità...), ciò che accade alla sua opera, la sua sorte, il favore o l'incomprensione che potrà incontrare, non hanno che una importanza effimera.
In verità l'artista non ha diritto di chiedere, per la sua opera, niente a nessuno. Quando ha sollecitato il gallerista perché gli paghi ciò che gli è dovuto, esigenza legittima e indispensabile, non gli restano altri compiti pratici nei riguardi delle sue opere. Può restarsene a casa, in riposo a pensare a sé stesso, o allo studio a pensare al prossimo lavoro. Invece è certamente dannoso pensare troppo alle opere già realizzate e che vanno, nel clamore o nel silenzio, per la loro strada. Ha avuto il grande piacere e privilegio di realizzarle e questo, in fondo, gli dovrebbe bastare per sempre.
Non ho inteso dire che all'artista i giudizi dei critici debbano essergli totalmente indifferenti: può essere utile - sempre che siano giudizi sinceri e non sollecitati o estorti o acquistati - metterli a confronto con il giudizio che lui stesso, nel profondo del suo spirito, ha della sua opera, e studiare di capire quanto del suo stesso giudizio sia dettato da un istintivo perdono per i suoi propri errori, quanto sia limpida conoscenza e quanto sia delirio e superbia. Ma raramente si riesce a guardare le proprie opere con distacco, raramente si riesce ad essere così saggi.

sabato 1 ottobre 2016

CHI L'HA VISTO?


Non c'è mai abbastanza nero per esprimere il violento contrasto che dilania questo mondo tra nascita e morte.
Pascal Quignard,L'incisore di Bruges,
Ed Frassinelli 2003, p. 68







Mi sono sempre chiesto se sia possibile limitarsi alle opere come se fossero state concepite da un puro spirito creativo, prescindendo quindi dall'essere umano carnale che le ha realizzate, ma fin ora anche questa domanda, tra le altre, resta, per me, senza una risposta definitiva.
Sconosciuto al pubblico, ostico ai critici, indifferente agli altri artisti, fuori dal mercato: sono i quattro muri che blindano l'attività di un incisore anche di vaglia.

Girolamo Russo è completamente estraneo ad ogni circuito artistico.
In rete si trovano un paio di lavori e una brevissima intervista annegata nel mare di you-tube, per il resto non ha mai allestito una personale, non c'è una pubblicazione che tratti del suo lavoro , non possiede un sito internet, non ha il profilo su Facebook, non fa parte di nessuna associazione… non si è sputtanato, come qualche giovane mezzatesta che mette personalmente in vendita su e-bay le proprie incisioni e 20,00 Euro.
Non lo incontrerete mai all'ora dell'aperitivo, più o meno rinforzato, nel ritrovo trendy, e se qualche volta va alle inaugurazioni degli "eventi cool" non è certo per farsi notare.
Farebbe non poca differenza se fosse presenzialista, vanitoso, presuntuoso, modaiolo, salottiero, ciarliero e fanfarone: ho tracciato la caricatura del profilo caratteriale dell'artista contemporaneo di successo, quanto alle loro opere… nella maggior parte dei casi l'opera è secondaria rispetto alle capacità di auto-promozione, nei casi restanti è del tutto irrilevante.
Ma se Russo fosse questo tipo d'artista non staremmo a parlarne, almeno non in questo stramaledettissimo Blog.



                       
La condizione di isolato, ha consentito a Girolamo Russo di vivere a distanza il travaglio dell'incisione.
L'ansia del nuovo, che è diventato il tarlo corrosivo dell'arte contemporanea, ha finito con l'accanirsi con particolare determinazione proprio nei confronti dell'autonomia, della più marcata peculiarità e della continuità dei mezzi espressivi storici, relegando l'incisione al ruolo di una tecnica obsoleta sopravvissuta solo per virtù di pochi.
Che l'incisione abbia dimostrato nel corso della sua storia straordinaria complessità di linguaggio oltre a innegabile fascino non è più questione decisiva.


Essendo un talento artistico naturale Girolamo Russo è capace di riprodurre fedelmente un dipinto del Seicento ed ha qualificate competenze nel campo del restauro, ma per vivere insegna ad adolescenti viziati con colleghi troppo presuntuosi per riconoscerne la qualità o anestetizzati all'indifferenza dalla routine scolastica (sommariamente è così, ma non escludo possibili eccezioni).
Tuttavia i motivi caratteriali non spiegano nulla perché conosco altri artisti schivi e appartati senza che la riservatezza abbia impedito loro di affermarsi artisticamente, comunque è vero che se la possibilità di farsi conoscere continuerà a dipendere solo da lui non avrà mai alcuna notorietà e se in questo non c'è alcun merito da parte dell'artista, c'è molto demerito da parte di quelle figure (critici, galleristi, curatori…) che dovrebbero promuovere l'arte.
In verità va detto che difficilmente si troverebbe qualcuno disposto a sopportarne gli sbalzi d'umore. Anch'io (forse) non ho alcun merito, poiché Russo mi era stato segnalato, ma posso rivendicare la mia determinazione nel cercare di contattarlo, scoprendo un atteggiamento decisamente indisponente: non risponde alle e-mail e al telefono sono solo «Ma... Non so… Ci devo pensare… Vedremo…». Inefficace anche il ricorso ad intermediari resisi gentilmente disponibili, ecco perché le opere sono prive di didascalie.
Non è che dar conto a questo detestabile blog sia obbligatorio, ma avendo imparato a distinguere anche i silenzi, so che la strafottenza di Russo non ha nulla del premeditato e finto disinteresse che dovrebbe attribuire a chi l'ostenta un aura di spocchiosa superiorità. Questo post  l'avrei pubblicato comunque (non fosse altro che per infantile dispetto) perché  (si capirà tra a breve) questa era l'ultima occasione di postarlo nel giorno in cui, per Russo Girolamo (detto Mimmo), ricorre il suo sessantaquattresimo genetliaco.


C'è nell'opera di questo "outsider" la più alta qualità attualmente in atto nell'ambito dei linguaggi astratti-informali, il fatto che i linguaggi astratti-informali abbiano ormai scarso appeal nel sistema dell'arte contemporanea è un altro discorso che non mi compete.
In un saggio del 2006 intitolato "Mercanti d'aura" i sociologi Dal Lago e Giordano indagano il rapporto tra artisti organici al sistema dell'arte contemporanea e outsider (folli, emarginati, carcerati…), ma ormai per risultare un outsider rispetto al sistema dell'arte contemporanea non occorre necessariamente un qualche patologia mentale.
Russo non rientra in nessuna delle casistiche che interessano la rivista "Raw Vision" che, come sottotitolo, recita "Outsider Art, Art Brut, Folk Art".
Per le mie conoscenze del mercato so bene che difficilmente una Sciura acquisterebbe un opera di Russo per il proprio salotto o boudoir (come direbbe Proust), ma il mercato non è fatto solo da Sciure nevrotiche e accollarsi il "disturbo" di conoscere gli artisti dovrebbe costituire l'impegno prioritario dei cosiddetti operatori culturali dell'arte se non avessero il culo incollato alla sedia della propria scrivania e non hanno mai scoperto nulla che non gli sia stato offerto o proposto o imposto da qualcun altro, tutti presi da altre faccende e (ne ho sempre più spesso conferma) del tutto privi di giudizio critico personale, incapaci di riconoscere autonomamente la qualità perché condizionati da opinioni e tendenze preconfezionate.
In verità qualcuno nelle passate edizioni del "Premio Acqui" aveva avuto occhio, ma i burattinai di quella baracca non sono andati oltre un premio minore, intascando comunque la tiratura e preferendo consolidare la loro rete amicale.


Vernice molle e acquatinta, 2008. 430 x 295

«Per ottenere gli effetti cromatici di questa stampa ho effettuato due passaggi di fondino a rullo rispettivamente per il rosso e per la gradazione di grigio, quindi ho applicato i frammenti in foglia d'oro e, in battuta conclusiva, ho stampato in nero la lastra incisa a vernice molle e acquatinta.
Se devo necessariamente trovare una relazione tra quello che emerge dall'opera e quello che sta al di fuori di essa, i riferimenti forse più rispondenti sembrano rimandare alle soffuse penombre dove si addensa il plasticismo strutturale dello spazio metafisico romanico, all'irradiazione musiva del misticismo bizantino che caratterizza lo spazio come entità luminosa.
Così alle atmosfere indefinite di luce radente si contrappone la luminescenza di frammenti dorati che insieme testimoniano il tentativo di far coesistere meditazione e contemplazione, mentre la campitura rossa si impone ed emotivamente disorienta.»
(G. R.)





So bene che circola il pregiudizio che gli elogi non portino bene perché alimentano la gelosia degli invidiosi. 'Affanculo gli invidiosi: fatevene una ragione, anche voi "maestrine" degli istituti privati, sedicenti europei o regionali, che spacciate per "ricerca" le impronte di tarlatana a ceramolle e che non potrete mai raggiungere la sublime qualità che in Russo si esprime con la stessa naturalezza con la quale gli uccelli cantano e volano o i pesci nuotano.
Alle incisioni di Russo bisogna abituarsi, come quando da un ambiente illuminato si passa in uno al buio. Il tempo che l'occhio si adatti all'oscurità e pian piano da quello che ci sembrava un uniforme buio vediamo affiorare rilievi e depressioni, faglie e corrugamenti.
I neri non sono mai piatti, ma se ne ricerca una continua variazione con successivi interventi che aggrediscono la lastra per schiarirla con abrasioni o scurirla con sovrapposizioni di segni e graniture di acquatinta.
Qualcosa che sa di lavorio oscuro sugli elementi per giungere dalla loro sorda opacità all'oro della definizione formale, alla luminosità della sintesi linguistica e così non è un caso che frammenti di foglia d'oro affiorino tra i neri di certe sue incisioni.
spazi inghiottiti in profondità caliginose, vellutate e indefinibili dalle quali emergono, agglomerati, scansioni di piani e volumi, strutture quasi architettoniche ma tutte sottoposte ad una sorta di prosciugamento figurativo che le riassorbe entro l'astrazione.
Un tempo Kholè non significava ira ma nero, se ira e nero erano un'unica parola i neri di Russo sono frutto della collera che è nella malinconia.
La sue lastre risultano incise come per un irrefrenabile impulso di collera, ma non si creda che le incisioni di Russo si realizzino di getto, sono frutto di un lungo susseguirsi di prove di stampa e interventi a togliere e ad aggiungere segni.
Secondo Aristotele di Stagira «Non è possibile all'uomo in collera frenare il suo furore come non è possibile al tuffatore che si lanciato dalla roccia bloccare il proprio slancio e non raggiungere l'acqua».


La pratica incisoria di Russo, per quanto sperimentale possa risultare, comporta pur sempre metodo, rigore e, comunque, un esercizio sorvegliatissimo, un sapere tecnico di fondata eredità storica. il suo "lavorio" appare come uno dei rari esempi di fedeltà all'esercizio incisorio riscontrabili nel vastissimo ed eterogeneo contesto di quel fenomeno artistico cui Russo si accosta a modo suo.


Questo post, proposto a Russo nel 2012, doveva essere strutturato in modo molto diverso e forse diverse sarebbero state anche queste mie grossolane considerazioni che spero risulteranno compensate dal testo critico che segue corredato da alcuni lavori recenti (per "inciso" gli unici ricevuti direttamente da Russo).
Evito di fare psicologismo spicciolo sul cambiamento riscontrabile nei recenti lavori di Russo, mi limito a rilevare che c'è poca incisione e troppa "Grafica", seppur "d'Arte", e, per i miei poveri gusti, consiglierei di lasciarla a quei vacui pretenziosi al soldo delle Accademie di Belle Arti.
Non so se il senso delle mie tante (troppe?) parole sarà compreso o frainteso, comunque sia, credo che nulla di tutto questo servirà da pungolo e, di certo, non sarò io l'uomo del destino. Celare la propria arte è facile, basta stare alla larga da critici, galleristi, concorsi e blogger..., ma rinunciarvi? E come si fa allora a vivere?


LO SGUARDO DELL'ANGELO
considerazioni sull'opera incisa di Girolamo Russo
Il primo incontro, a volte casuale, con una singola opera di un autore è sempre problematico. Specialmente quando il sentire dell'artista si discosta molto dalla natura la comprensione del linguaggio non risulta di immediata lettura, così solo conoscendo meglio l'autore e la sua opera è possibile apprezzarne la poetica. È questo il percorso che ho seguito incontrando per la prima volta un'incisione di Girolamo Russo esposta a Bagnacavallo nel 2003 in occasione della mostra di presentazione del quarto volume del Repertorio degli Incisori Italiani.
Azzardo subito la definizione di "Informale Strutturato" tentando con questo ossimoro di rendere la ricerca che guida le scelte affatto personali di Russo, non per ingabbiarne la poetica entro griglie predefinite di categorie estetiche e movimenti codificati o da codificare, ma per l'esigenza di ripercorrere il processo genetico dell'opera d'arte nel tentativo di non proporre solo una concezione mistica della forma.

Senza titolo, cera molle - acquatinta, 2013, cm 29,4 x 43

Il controllo compositivo dell'immagine è rigoroso, ma non è ottenuto tramite geometrie rintracciabili, bensì attraverso un equilibrio di "pesi" regolato da un senso della composizione che è proprio dell'artista, da quella percezione delle cose che non dipende da alcuno dei cinque sensi ordinari. Questo sesto senso, che Boileau chiama "l'influenza segreta", non trova alcuna precisa localizzazione, la sua funzione è quella di discernere l'armonia o, piuttosto, un'idea dell'armonia. Un equilibrio emozionale, si potrebbe parlare di uno spazio instabile e a un tempo immobile, tra il "non più" e il "non ancora", ritorna un altro ossimoro che è la figura retorica che meglio si addice alla stessa concezione della vita di Russo, il suo universo è soggetto a forze centrifughe, esplosive: le monadi si sono dissociate, decomposte, frantumate. In alcuni casi i segni si aggrumano e premono verso i bordi della lastra fino a deformarne i margini.

Senza titolo, tecnica mista 2015, cm 35,8 x 55,3
Il metodo operativo procede per continue aggiunte e sottrazioni. Interviene in modo febbrile, ricerca neri assoluti e vellutati che si dileguano in soffuse luminescenze o si contrappongono a folgoranti bagliori. La definizione dei segni è sempre nitida, niente "barbe" o aloni creati solo in fase di stampa. Con calibrate abrasioni attenua, sgrana o cancella i segni e le graniture, ogni volta la verifica della stampa per, eventualmente, ritornare a sovrapporre altri segni, altre graniture, altre morsure. Questo modo di procede parrebbe escludere la possibilità di operare con una tecnica così indiretta, invece Russo, che ha padronanza assoluta di tutte le tecniche pittoriche anche tradizionali, benché il suo mondo poetico vibra delle cadenze informali, sente profondamente l'incisione. Predilige le campiture di acquatinta a spruzzo e i segni di vernice molle, quando interviene direttamente sulla lastra con frese e spazzole metalliche i segni vengono ulteriormente rialzati sottoponendoli a morsure di cui tende sempre a forzare i limiti estremi: incidendo in profondità fino a rendere impossibile ogni altro intervento di ripensamento, o sfiorando appena la lastra come un impalpabile velo acido.
Nell'attuale dibattito sulla grafica d'arte la rispondenza al concetto di "originale", oltre al diretto intervento manuale da parte dell'artista autore dell'opera, ha posto anche il problema della coerenza del "linguaggio" con le caratteristiche specifiche del segno grafico. In verità alcuni hanno tentato di mettere in discussione anche il principio del diretto intervento manuale da parte dell'autore. La distinzione autore/esecutore è ammissibile in particolari ambiti, ma riferendomi allo strettissimo campo del disegno e dell'incisione non mi convinceranno mai che basti apporre la propria firma su una cosa realizzata da altri per assumerne la paternità e i termini in cui si faceva qualcosa di analogo nelle antiche botteghe andrebbero meglio chiariti prima di citarli ad esempio. Inoltre con assoluta chiarezza va affermato che spacciare una riproduzione fotografica per un'incisione originale è un falso senza attenuanti. Fatti salvi i principi etici, la questione del linguaggio rappresenta solo un falso problema: il linguaggio, o meglio i linguaggi sono in continuo cambiamento e in definitiva non c'è critico o cattedratico al mondo che possa dire a un artista cosa e come deve o non deve fare per esprimersi. Pertanto è inutile chiedersi a quale categoria appartenga il linguaggio espressivo di Russo in quanto egli opera un continuo e reciproco sconfinamento: elementi "grafici" si trovano nei suoi dipinti e soluzioni "pittoriche" si trovano delle sue opere grafiche, senza che in alcun modo si intacchi il giudizio di merito e la portata estetica dell'opera. Incurante del poter essere considerato "fuori moda" rispetto alle tendenze neofigurative e concettuali che sembrano spartirsi l'attuale ribalta dell'arte, Russo procede con assoluta coerenza e correttezza, non si concede scorciatoie, tutto è nella lastra: è artefice e artista.

Senza titolo, tecnica mista 2016, cm 37,3 x 56,3
L'artista è qualcosa di diverso dall'uomo comune, l'incisore, come il poeta e il funambolo, sono creature in bilico, che vivono nel rischio di una perdita immanente. È Russo stesso a dichiarare che la sua opera d'elezione è L'isola dei morti di Böcklin. A differenza del personaggio raffigurato da Böcklin di spalle ritto sulla barca che punta verso l'isola, Russo è già approdato sull'isola ed è lì che si guarda intorno: conosce cosa c'è dietro i cipressi e dentro i sepolcri che ha violato scavando come scava le sue lastre. Amplia la sua arte verso questo "lato oscuro" della realtà gettando, come nell'Eupalino di Valéry, uno sguardo dal mondo delle ombre sul mondo reale.
Ai segni delle composizioni di Russo si può adattare il concetto di Eidolon che indica un mondo di creature d'ombra estraniate dalla vita, figure che si muovono in una zona di transizione tra vita e morte, ma nulla rimane delle caratteristiche che ne determinarono la vita.
Senza titolo, tecnica mista 2016, cm 32,4 x 50,3
Il filologo classico Erwin Rohde, noto come amico di Nietzsche, vide nell'Eidolon, dal punto di vista etnopsicologico, l'alter ego: "L'uomo esiste secondo Omero due volte, nel suo aspetto percettibile e nella sua riproduzione invisibile (Eidolon), che diventa libera solo con la morte. Questo e nient'altro è la sua psiche".1 Un concetto simile, secondo il quale nell'essere umano vive un altro io come la sua "psiche", è il credo dei cosiddetti "popoli primitivi" di tutto il mondo. L'oscura religione ctonia si contrappone al luminoso mondo degli dei dell'olimpo. Ogni incisione di Girolamo Russo è un sacrificio rituale alle divinità ctonie, sotterranee, che dominano sulla morte e sulla vita, sul fiorire e sullo sfiorire.
Russo individua i limiti tra i due mondi, tra la memoria e l'oblio, tra il visibile e l'invisibile, ma allo stesso tempo suggerisce la possibilità di uno sconfinamento, rende possibile il passaggio attraverso lo specchio.
Grazie ai prodigi dell'angelo Heurtebise, protagonista dell'Orfeo di Cocteau, il poeta Orfeo può guardare Euridice morta attraverso lo specchio, raggiungerla e riportarla in vita. «Vi svelo il mistero dei misteri - dice Heurtebise - Gli specchi sono le porte attraverso le quali la morte va e viene. Non ditelo a nessuno. D'altronde guardatevi per tutta la vita in uno specchio e vedrete la Morte lavorare come le api in un alveare di vetro».
Il tema della porta è individuabile in alcune opere di Russo e forse non è un caso che per preparare una lastra da incidere occorre prima pulirla e lucidarla "a specchio".
La figura dell'angelo è evocata anche da Rilke, in una lettera scritta durante la stesura della IV Elegia afferma che la sua missione consiste nel raffigurare il mondo dal punto di vista di un angelo accecato, deve cioè guardare come chi vede nell'invisibile. Ma quest'angelo altri non è che il poeta stesso, perché è proprio dei poeti, degli antichi aedi, l'essere cieco. La cecità è, infatti, l'attributo della veggenza, i poeti "ciechi alla luce vedono l'invisibile".2 Non appaia paradossale questo fare riferimento alla cecità a proposito di un artista visivo perché la "visività" alla quale si fa riferimento non riguarda la rappresentazione, intesa come ripetizione, della realtà visibile, ma la capacità di rendere visibile l'invisibile: è il punto di vista degli angeli, è il punto di vista di Girolamo Russo.

Clemente Del Buono, Novembre 2004

NOTE
1. Erwin Rohde, Psiche. Culto dell'anima e fede nell'immortalità dei greci, 1898, p. 5.
2. J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i greci, Torino 1978, p. 95.

domenica 4 settembre 2016

INCISIONE & ARCHITETTURA

Aldo Rossi
L'ARCHITETTURA DOMESTICA
acquaforte 1974, mm 182 x 130















La coincidenza tra la segnalazione ricevuta di una pagina Facebook e un articolo intitolato "Appunti sull'incisione di architettura del secondo Novecento", a firma Sandra Suatoni, nel numero 106 della rivista "Grafica d'arte" mi hanno indotto a documentarmi meglio sull'argomento giungendo a questa mia considerazione.
Carla Suatoni, che lavora presso l'Istituto Nazionale per la Grafica, ha coordinato le due edizioni di "Architettura Incisa", nel 2009 e nel 2012, dove, per farla breve, docenti e studenti di architettura hanno realizzato delle incisioni presso i laboratori di Palazzo Poli.
Chiariamo subito che non si sta facendo riferimento ad una "Architettura Incisa" per scopi di riproduzione come avveniva fino all'Ottocento, inoltre, se ho ben capito, "Architettura Incisa" non è, di per sé, un'incisione che raffigura una qualunque architettura. Per intenderci con qualche esempio in ambito contemporaneo: le vedute di Enrico Piras, le cascine di Zaliani, le "Torri" e i "Palazzi" di Lanfranco Lanari, i "Labirinti" o i monumenti raffigurati da Toni Pecoraro e potrei continuare con altri disparati esempi aggiungendo soltanto i reperti di archeologia industriale di Gianni Cacciarini, proprio perché è architetto di formazione come Piazza, come Giulio Massimi scomparso lo scorso Aprile e come altri artisti che hanno studiato architettura... ebbene tutti questi esempi non rientrano nel concetto di "Architettura Incisa" per come l'intendono gli architetti.
Il progetto architettonico è anche un'occasione per elaborare riflessioni teoriche sull'architettura, alcuni architetti ritengono che si possa fare architettura anche non costruendo, ma limitandosi alla sua rappresentazione che quindi può avvenire con le tecniche più varie: digitali, grafiche, pittoriche...
Se in campo artistico l'incisione ha sempre avuto, fin dalle origini, un filone parallelo che l'ha utilizzata per le sue peculiarità espressive, per gli architetti (Piranesi escluso) ha rappresentato (fino all'avvento della fotografia) solo un mero mezzo di riproduzione a fini divulgativi, si affidavano i disegni di progetto alle stamperie calcografiche o litografiche come oggi s'invia un file al centro stampa (magari non proprio con la stessa disinvoltura: "Oh Tempora, o mores"). L'interesse degli architetti per l'incisione come tecnica espressiva è quindi un fatto recente, non so se vi sia anche una componente nostalgica (i protagonisti tendono ad escluderlo), di certo, per praticarla in prima persona, si rende necessario un recupero di "primitiva" manualità molto distante dagli attuali virtuosismi virtuali.
Anche la pagina FB s'intitola "Architettura Incisa", credo con esplicito riferimento l'omonima iniziativa, ma programmaticamente dichiara di non voler fare distinzioni tra "Architettura Incisa" e "Incisioni di Architettura" che sarebbero proprio quelle degli artisti citati e dei tanti altri che prediligono l'architettura, reale o fantastica, come soggetto delle loro opere. Non so dire se l'impostazione sia corretta e coerente, vedremo come si svilupperà la pagina, pertanto sospendo ogni giudizio potendo ritenere il principio della scelta inclusiva valido quanto quello che tende ad una concezione esclusiva limitata allo stretto ambito architettonico.
Il breve articolo pubblicato su Grafica d'arte "... introduce a uno studio sugli architetti incisori del Novecento i cui lavori sono stati sovente poco considerati", la necessità di una estrema sintesi ha penalizzato lo sviluppo dell'articolazione del testo e l'apparato iconografico.
Ammetto la mia ignoranza nel non sapere se tutti i nomi citati siano (proprio tutti?) architetti di chiara fama, rilevo però che, sotto l'aspetto meramente quantitativo, se è pur vero che sono molti gli architetti che, per curiosità o per insistenza di qualcuno, si sono cimentati con l'incisione, nella maggior parte dei casi tale esperienza si limita a pochissime prove e, pertanto, considerare "architetto incisore" (quasi fosse Piranesi) chi ha realizzato solo un paio di acqueforti mi sembra, francamente, diciamo... molto "generoso". Probabilmente a fare eccezione (per quantità) è la produzione di Aldo Rossi che però, opportunamente, viene definita "grafica" non trattandosi sempre e solo di incisioni, ma tendendo ad ibridare tecniche anche di riproduzione fotografica.
Venendo all'aspetto qualitativo, non intendo valutarne la rilevanza storica, artistica e culturale, mi interessa esplicitare il fatto, sempre taciuto, che questo fenomeno (fuori da un isolato "divertissement") è soggetto ad una duplice valutazione negativa.
Innanzitutto c'è una critica tutta interna alla disciplina dell'architettura, da parte di quegli architetti che, concependo l'architettura come spazio costruito, considerano i disegni di progetto solo una mediazione finalizzata alla realizzazione dell'opera e non ritengono che possa esistere una ricerca e una idea di architettura che si esprima solo a livello di rappresentazione non finalizzata alla costruzione, tanto ché hanno sempre visto con fastidio quegli elaborati che enfatizzano l'aspetto grafico al di là di quanto strettamente necessario a comunicare l'idea progettuale. Questa disputa ha radici lontane e lasciamo che siano gli architetti, se ne hanno ancora voglia, a sbrigarsela tra loro.
L'altro fronte critico è quello degli artisti incisori che accusano l'assoluta mancanza di competenza tecnica e un linguaggio grafico inadeguato che insieme sfociano spesso nel dilettantismo.
Generalmente un architetto che per la prima volta si cimenta con un'incisione o una litografia è portato a riproporre sulla lastra o sulla pietra un suo schizzo (raramente un disegno più controllato) con l'aiuto di uno stampatore che si fa carico di tutti gli aspetti tecnici necessari per arrivare alla stampa.
Far comprendere che l'incisione non è semplicemente un disegno realizzato su una lastra anziché su un foglio è tra i meriti delle due edizioni di "Architettura Incisa". Si coglie l'intenzione di concepire un linguaggio grafico congeniale al segno inciso e i risultati più significativi, in questa direzione, provengono degli studenti.
Figuriamoci se un "archistar" può porsi scrupoli di questo tipo, infatti proprio a costoro si devono le prove più deludenti alle quali i tecnici dell'Istituto hanno tentato di porre rimedio con colori, fondino e velature per attenuarne l'imbarazzante inconsistenza.
Nel gruppo un caso a parte è rappresentato dall'architetto Franco Purini il cui segno espressivo è naturalmente congeniale all'incisione, risultando piranesiano anche in alcuni suoi progetti.
Fino ai primi del Novecento la formazione di un architetto non differiva molto da quella di un artista: credo risalga al 1929 la costituzione della Facoltà Universitaria di Architettura che sino ad allora era un sezione all'interno delle Accademie di Belle Arti. La scissione tra i linguaggi artistici e quelli architettonici ha seguito di pari passo la differenziazione e la specializzazione cui sono andati soggetti i percorsi formativi di studio, con una accelerazione ai giorni nostri - alla quale si sta oggi tentando di porre un inutile freno - causata dal passaggio alla rappresentazione digitale.
Le Corbusier dipingeva quadri post cubisti e nelle sue costruzioni certe impronte nel calcestruzzo a vista ne contengono le suggestioni (se non ha mai dipinto una veduta della Villa Savoy, è pronto a far notare l'Avvocato del Diavolo, vorrà pur dire qualcosa).
Oggi o si è artisti (accantonando i retaggi della formazione da architetto, utile qualche volta, ma per lo più da rimuovere o sublimare nel migliore dei casi) oppure, se si vuole essere architetti, si finisce per ricondurre a questo campo autoreferenziale ogni altra forma espressiva.
È il percorso trasversale dei linguaggi artistici che oggi appare precluso e un tentativo in questo senso è un altro merito di "Architettura Incisa".

mercoledì 31 agosto 2016

DA NON PERDERE

Nel numero 335 di Settembre della rivista "Artedossier" due articoli trattano di incisione:

Bianca Cerrina Feroni, L'EROS È UNA LINEA SOTTILE.
Incidere a quattro mani: Hans Bellmer e Cécile Reims.
















Carol Morganti, LUCE SULLA FOLLIA.
Il volto della Vittoria di Henry De Groux.



sabato 13 agosto 2016

COSA NE PENSI?

       

Rembrandt
Il Dottor Faust







H
o il privilegio di frequentare degli artisti, non molti in verità, che mi mostrano le nuove incisioni in fase di realizzazione o che hanno appena ultimato. Così, pian piano, mi sono fatto l'idea che chi incide (ma ritengo valga per chiunque si applichi ad un'attività creativa) corre due pericoli: il pericolo di essere troppo tollerante con sé stesso e, all'opposto, il pericolo di essere ipercritico fino a disprezzarsi. 
Quando l'artista sente che tutto ciò che pensa e realizza trabocca di qualità, allora incide con una facilità che dovrebbe insospettirlo, ma generalmente non ha alcun sospetto perché, in questi momenti di euforia creativa che arde di vano fuoco, non c'è spazio per sospetti o dubbi e tutto quello che realizza gli sembra felicemente risolto, utile e destinato all'immortalità.
Quando invece tende a disprezzarsi, annienta ogni idea non appena si affaccia, e così ammucchia intorno a sé ingombranti cadaveri di idee difficili da rimuovere.
Oppure ancora, essendo pieno di disprezzo per sé stesso, ma anche di una oscura speranza, insiste su una stessa idea la rielabora, la modifica infinite volte, nella speranza che da quella idea iniziale sgorga, per miracolo, il capolavoro.
Perciò chi incide, dopo un momento di elaborazione individuale, sente con forza la necessità di confrontarsi: poche persone di fiducia alle quali sottoporre ciò che pensa e sta realizzando. Il pubblico è, per l'artista, una proliferazione di queste poche persone proiettate nell'ignoto e, si auspica, nel tempo della storia.
Sono proprio queste persone che aiutano l'artista sia a non provare per sé stesso una fiducia cieca, sia a non provare per sé stesso un disprezzo mortale. Lo aiutano a difendersi dalla sensazione di farneticare in solitudine.
Siccome il principale timore dell'artista è di realizzare opere inutili e non interessanti, è assolutamente necessario che gli interlocutori proteggano l'artista da questo timore.
La scelta degli interlocutori non è facile: l'amicizia, la stima, l'affetto sono necessari, ma non sufficienti. 
Difficilmente i figli possono assolvere a questo compito tendendo ad assere nei confronti dei genitori ipercritici e se questo non accade, accade il contrario, cioè tendono a mitizzarli, ed è anche peggio.
Si può obiettare che ciascun artista dovrebbe essere abbastanza maturo per autovalutarsi, per quanto è possibile ad un essere umano esprimere un giudizio distaccato sopra sé stesso, ma agli interlocutori non si chiede tanto un giudizio critico disincantato, quanto una sorta di partecipazione, durante il lavoro e subito dopo, un contributo di parole al lavoro solitario di incidere.
Ho la presunzione di essere un interlocutore ideale, pur essendo caratterialmente irrequieto e niente affatto paziente, ho un naturale rispetto dei modi e dei tempi del dialogo e osservo sempre con attenzione qualunque incisione, forse mi riesce anche di animare, nel prossimo, il desiderio di incidere.
Riuscire a trovare attenzione è raro, ritengo che gli artisti non si sbagliano mai riguardo all'attenzione del prossimo, cioè si accorgono subito quando l'attenzione verso una loro opera è debole e distratta: dal grado di attenzione si può intuire il riscontro che attenderà l'opera.

lunedì 1 agosto 2016

L'INCISORE E LA FORMICA

L'unica "incisione" che oggi mi interessa è quella che nel dare forma (cioè segno, stile, composizione) ad un contenuto, riesce a raccordare idee ed esperienze, ma senza esibire lo scarto tra incisione e mondo, o la virtualizzazione del reale, o il labirinto bugiardo di sconfinati universi paralleli, o l'esplosione del linguaggio, o la crudeltà obliqua, o il destino manieristico dell'arte.
Ho trovato un chiarimento di questa mia idea confusa nel romanzo “Maestro Utrecht” di Davide Longo (NN Editore, pp. 156, € 13,00), dal quale avevo tratto il post intitolato “Apologo sulla didattica dell’arte”.
Longo, che insegna scrittura presso la "Scuola Holden" di Torino, utilizza la metafora della "formica tagliafoglie" riferendola all'attività dello scrittore, così, anche se a Davide Longo, «… irrita parecchio che usino le mie similitudini… Non mi va che troppa gente ci metta le mani sopra.» (p. 53) la riporto con l'aggravante di distorcerla sostituendo le parole scrittore e storie con artista ed arte.

«Per arrivare al sodo, essa fa cosi: la formica tagliafoglie è una formica tropicale dotata di robuste mandibole e due denti laterali simili alle chele di un granchio, che le servono per ritagliare geometricamente grandi foglie, staccarne parti pesanti fino a dieci volte il suo peso, e trasportarle nella tana.
Le tane sono agglomerati urbani, un metro sotto terra, abitati da milioni di formiche che civilmente collaborano per il bene della comunità, secondo il luogo comune che le accomuna alle api e ad altre industriose creature estranee all'egoismo.
Per molto tempo sì è dato per scontato che le formiche tagliafoglie si cibassero dei ritagli di foglie. Perché altrimenti fare tutta quella fatica? Finché si è scoperto che le cose non stavano così.
La formica tagliafoglie non mangia le foglie, ma le porta in un'enorme cella sotterranea e aspetta che grazie al buio e al calore vadano in decomposizione, producendo sulla loro superficie un fungo, fonte del suo sostentamento.
Lo stesso equivoco alimenta da sempre l'idea che la gente ha degli artisti: che prendano pezzi di vita, li portino in laboratorio e ne facciano opere d'arte.
Un artista non si ciba di vita propria o altrui, ma ne ritaglia porzioni, le trascina nella tana e aspetta che su quei brandelli in decomposizione, grazie al luogo caldo, chiuso e poco areato, nascano le sue opere. Ne deriva che le opere d'arte non sono vita, né una sua "rappresentazione", ma qualcosa che cresce sopra la vita, nelle tane di determinati individui. Può sembrare una questione di lana caprina, ma in verità è sostanziale, avendo a che fare con la sostanza di cui è fatta l'arte

giovedì 14 luglio 2016

XY SECONDA PARTE: GRANDE ARTISTA / VERO ARTISTA

Un artista è un artista qualunque sia il mezzo espressivo adottato.
Così dovrebbe essere, ma così non è, forse perché sono artisti anche il clown del circo, il musicista, l'attore e il suo truccatore (make-up artist) ecc… ciascuno tende a distinguersi specificando, nel campo delle arti figurative, se è video-artista, artista performativo, street-artist… oltre ai tradizionalissimi, e ormai superati, pittore, scultore… quindi se c'è bisogno di precisare che l'artista in questione è un incisore s'intende già che è fuori da ogni logica del sistema dell'arte contemporanea dove, per inciso, il clown del circo come artista, rispetto a un incisore, riscuote più credito.
Ritengo superfluo chiarire la differenza tra "fare" l'artista ed "essere" artista", qui provo ad affrontare l‘aspetto dell'essere e l'idea di artista che si può dedurre da un manuale scolastico di Storia dell'Arte o dal catalogo di una mostra o visitando un museo… è quella del genio creatore di capolavori assoluti.
Questa stessa idea trasposta ai nostri giorni, nel cosiddetto "sistema dell'arte contemporanea", ha il suo equivalente nell'"ArtiStar", cioè l'artista affermato, di successo, ben noto, con un stuolo di collaboratori che realizzano le sue opere e che fa soldi a palate.
Chiunque non sia arrivato al successo è considerato un artista fallito, ovvero non è un artista.
Questa è una concezione che potremmo definire "esclusiva" alla quale si potrebbe affiancare, se non contrapporre, una concezione "inclusiva" cioè un'idea molto più larga di arte e di artista.
Non è questione da poco definire se le arti sono solo quelle canoniche della tradizione e dell'innovazione o non abbiano pari legittimità anche le cosiddette arti minori e anche arti stravaganti mai sentite fino al punto di comprendere qualunque attività.
Il problema che si poneva nel post precedente e al quale provo a dare una mia risposta è se si può essere considerati artisti (veri artisti) anche senza aver raggiunto il successo.
Quando dico "essere considerati" intendo un riconoscimento sociale o pubblico, perché nel proprio privato ciascuno può ritenersi superiore a Picasso, l'esempio non è casuale perché misurarsi, per esempio, con Michelangelo qualche dubbio lo pone anche al più presuntuoso degli hobbysti.
Quando una inclinazione viene perseguita fino all'estremo possiamo definirla, anche in senso psicopatologico, una mania e pertanto, in questo strampalato tentativo di ri-definizione possiamo considerare l'arte come una mania e l'artista come un maniaco.
La mania del vero artista non è semplicemente una mania occasionale come per i "sani" dilettanti.
Dilettanti sono tutti coloro che esercitano l'arte in momenti di intervallo della loro vita quotidiana. Il fatto che alcuni possano continuamente, sul luogo di lavoro, in famiglia, quando fanno la spesa… rompere i coglioni al prossimo vantando l'ultimo lavoro realizzato o la mostra in programma… non li riscatta.
Al vero artista, che sia un vero maniaco, interessa solo l'esercizio della sua arte, gli importa "essere" all'opera e non l'opera che invece è l'interesse prioritario di chi "fa" l'artista. L'opera, per l'artista che "È" artista, se mai si realizza è solo un sottoprodotto della sua mania, una secrezione, anzi non è necessario che vi sia un "prodotto" che possa essere visto e ammirato, che contabilizzi i “Mi Piace” su Facebook, perché l'artista può esercitare in segreto, può "essere" ignoto e invisibile, indifferente all'avere un pubblico.
Lo spettacolo pubblico (s'intenda la mostra personale, la partecipazione alle Biennali e/o il post su FacebooK) è un aspetto aggiuntivo al puro esercizio dell'arte; è, caso mai, compito del gallerista o del mercante che ne fanno un'attività redditizia, ma dal punto di vista dell'artista il riconoscimento del pubblico e della critica è un fatto esterno. L'artista, il vero artista, e non importa in quale campo, è tutto rivolto a sé stesso. La sua arte non si esercita in un momento di intervallo della sua vita perché non c'è soluzione di continuità tra arte e vita, perché non c'è un'altra vita, né famiglia, amicizie, divertimenti… non c'è un riposo dall'arte perché non c'è fatica, né prestazione d'opera rispetto ad un committente o gallerista o mercante o spettatore. L'arte aderisce all'artista come il canto e il volo agli uccelli o il nuoto ai pesci… che sono tutte manifestazione della loro piena vitalità e non un'esposizione di abilità "artistiche".
Il comportamento istintivo di una specie animale è l'ideale di una vita d'artista, tutto quello che ogni vero artista vorrebbe essere ed è.
Attenzione voi che vi siete, più o meno, riconosciti in questo profilo, abbiamo definito il supremo ideale di perfezione dell'artista che essendo uomo nutre l'eterna insoddisfazione di non essere animale e forse non riuscirà mai ad esserlo (Bestie sì, purtroppo esistono anche tra gli uomini). Da questa osservazione e considerazione di sé stessi nasce la consapevolezza dei propri limiti e la sensazione di non essere capiti che non toccherà mai un animale che invece non si preoccupa certo di poter o voler appartenere ad un altra specie.

venerdì 1 luglio 2016

XY: UNO STRANO CASO, ANZI BANALE*

* In questo post ogni riferimento a persone realmente esistenti
o a fatti realmente accaduti è del tutto voluto.

XY è uno di quei casi di precoce vocazione artistica scoraggiata dai genitori, ma che ha continuato a covare repressa fin quando, per una consapevole presa di coscienza, invece di passare la vita con il rimpianto e maledicendo chi l'aveva generato, ha deciso di realizzarla.
Gli anni in cui la vocazione era stata accantonata non sono trascorsi senza conseguenze, infatti è mancata a XY quella formazione che si costruisce più solida proprio negli anni dell'adolescenza.
Da quando XY ha compiuto la propria scelta artistica ha sempre lavorato con dedizione e costanza, proponendo i propri lavori allorquando se ne presentava l'occasione, ma senza mai cercare di stabilire conoscenze al solo scopo di trarne vantaggi per la "carriera" artistica.
La ritrosia è anche da attribuire alla sua riservatezza in quanto manifestazione esteriore di una timidezza e di un senso di inadeguatezza esasperati.
Le volte che è venuto in contatto con le persone di una certa rilevanza e che potevano fare la differenza non ha mai chiesto alcun appoggio o interessamento non sopportando l'imbarazzo di poter disturbare, ché già - dice - si reca disturbo venendo al mondo: un atteggiamento che più di discrezione mi sembra di diserzione.
Così chiunque lo abbia conosciuto ha finito per apprezzarne, se non l'arte, l'umiltà, la serietà, e la disponibilità non suggerita da secondi fini, tutte qualità umane che, nel sistema dell'arte, caratterizzano un perdente, infatti, alla lunga, nel suo rifiuto a "darsi da fare" per imporsi è stato superato nella notorietà e nelle quotazioni, da altri che non hanno esitato a sollecitare l'appoggio proprio delle stesse persone.
Nel tempo, invece di consolidare e accrescere la sua rete di relazioni con la critica e il mercato dell'arte, si è sempre più chiuso in sé stesso, addirittura allentando o chiudendo anche contatti già stabiliti e consumandosi nella sua eterna insoddisfazione.
Sono propenso a credere che XY sia consapevole dei propri limiti, probabilmente è attraversato da un anelito che mira a qualcosa di impossibile per le sue capacità artistiche.
La sua tecnica è accurata, ma non è un virtuoso; le sue tematiche non sono del tutto coerenti; la sua creatività manca di originalità e i suoi soggetti ricordano, a volte, quelli di qualcun altro che li realizza anche meglio.
Questo è il mio personale giudizio su XY e le considerazioni fin qui svolte sono, volutamente, viziate dalla concezione, tipica dell'arte contemporanea, che considera il percorso artistico come una sorta di gara ad ostacoli, da qui termini come "arrivare", "affermarsi", "perdere", "superare"… che di uso comune hanno punteggiato anche la mia ricostruzione.
Ritengo che anche XY all'inizio si sia "iscritto" a questa "gara", ma ad un certo punto sembra aver mollato, non so dire se la decisione sia stata scelta o subita o se sia ancora un'altra conseguenza caratteriale.
Con tutti questi presupposti si è capito che il nostro XY, secondo il giudizio comune, è un artista di "Serie B" (tanto per rimanere nella similitudine agonistica): non è certo un innovatore del linguaggio e dei temi, si potrebbe definire un artista di corrente, la sua opera si inserisce dignitosamente in un filone che ha ben altri esponenti di rilievo.
Il severo giudizio critico è confermato dal fatto che XY non ha mai ricevuto alcun premio in una qualche biennale, ma è contraddetto da una serie di inaspettati riscontri che ne configurano l'anomalia annunciata nel titolo.
Lasciamo da parte mostre e pubblicazioni, ché chiunque può farne sfoggio, e si potrebbero elencare dei fatti incontrovertibili, tuttavia poiché lo stesso XY non ne ha mai fatto vanto, eviterò di elencarli puntualmente e dico solo che XY è ben noto, benché non altrettanto stimato, nel campo dell'incisione italiana pur non avendo mai né sbraitato né sollecitato, con petulanza, attenzione.
Le sue opere incontrano un certo successo commerciale anche in quel famoso catalogo di vendita, inoltre a giudizio di colui che probabilmente passerà alla storia come il più grande (per quantità) editore italiano di incisioni di tutti i tempi, che lo ha sempre difeso e promosso efficacemente, è uno dei pochissimi incisori capaci di lavorare su commissione: assegnategli un tema e il lavoro svolto sarà dignitosissimo, anche se non avrà le stimmate del capolavoro; questo gli ha consentito di essere probabilmente tra gli ultimi che hanno guadagnato qualche soldino incidendo acqueforti.
Quelli premiati a tutti i concorsi, molto più quotati (da sé stessi), che però non vendono un foglio, obietteranno che si tratta di soggetti "facili", mentre loro non fanno incisione commerciale.
Diffido di chi dichiara di voler esporre solo all'estero, chiede settecento euro per una piccola incisione che però non si sa dove poterla acquistare non essendo disponibile neanche nella sedicente prestigiosa galleria che ha organizzato la mostra.
Posso confermare che XY vive realmente un'esistenza votata alla sua arte, a differenza di tanti "Piccoli (o Grandi) Imprenditori dell'Arte", adotto la perifrasi ritenendo di non poterli definire artisti sebbene realizzano (o fanno realizzare da altri) le loro opere, partecipano alle mostre ecc… ecc..., ma conducono un esistenza da piccoli speculatori: presenzialisti alle inaugurazioni per incontrare e raccontare dell'ultimo lavoro o della mostra in corso o in programma.
Ritengo che XY viva un qualche disaggio sociale, ma non è né un istintivo né un outsider, nei suoi lavori si avverte il condizionamento della sua istruzione e della sua cultura.
Il mio sospetto è che la scelta artistica possa essere stata per XY più che una naturale inclinazione e una necessità espressiva una forma di terapia per cercare di "anodizzare" con l'arte i propri dolori o disturbi. Se così fosse non sarebbe certamente né il primo né il solo, tuttavia l'impegno artistico è divenuto così preponderante che non è più una libera scelta, né una forma di cura, ma si è trasformato, anche in senso psicopatologico, in una mania.
Sarebbe semplice se tutti i diversi aspetti si potessero porre su due diversi piatti della bilancia e verificarne il peso, in mancanza di questa soluzione il dubbio che si affaccia è se XY (dando come postulato che non è un "grande" artista) può essere considerato comunque un "vero" un artista.
La risposta che io mi sono dato sarà nel prossimo post.