lunedì 31 ottobre 2016

COME TI VORREI

《... Ecco dunque l'unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare il alto (per noi è per gli altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira basso. Rinceffargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza.
Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi alla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno Grazia sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo...》

Breve estratto da una lettera, non di Onorio Del Vero, ma di don Lorenzo Milani a don Ezio Palombo, Barbiana 25/03/1955.
Luigi Bartolini, LO STUDIO (UOMO CON GRILLI IN TESTA) acquaforte, 1942 mm 152 x 100

Sentiamo continuamente deplorare la scomparsa della critica d'arte, ovvero la scomparsa di un giudizio chiaro, inesorabile e puro. Si auspica un'intelligenza lucida, chiara e altera, che esamini con distacco, un'intelligenza che guardi agli artisti e non a sé stessa, misurata e implacabile nei confronti delle opere nel definirne vizi ed errori.
Ma affinché possa esistere un'intelligenza di questa specie, dovremmo tutti avere nel nostro spirito una lucidità e una purezza di cui tutti oggi siamo privi, di cui è priva la società, e non può aver vita fra noi un essere troppo differente da noi stessi, troppo differente dalla società nella quale è stato generato.
L'artista dal critico si aspetta (e non ha mai) un giudizio che lo aiuti ad essere più fortemente quel che già è, si aspetta benevolenza, come qualcosa che gli sia dovuto e se non la ottiene si sente incompreso, perseguitato, vittima di un odio ingiusto e pronto a scorgere nel critico qualche fine spregevole.
Se l'artista è amico del critico, o se semplicemente si sono a volte incontrati scambiando qualche parola, l'amicizia o quegli incontri sporadici lo fanno certo che il giudizio del critico sarà lusinghiero; e se non è così, e al posto del giudizio positivo ne ha invece una stroncatura spietata, o più spesso soltanto silenzio, l'artista precipita in uno stupefatto sconforto, per poi subito infiammarsi di velenoso rancore, come se la vera o presunta amicizia o i rari incontri gli avessero dato diritto a un favore eterno. Perché il nostro malcostume sociale porta a chiedere all'amicizia, o anche ad un semplice sorriso di cortesia, non già un giudizio sincero ma l'immediato vantaggio.
I giudizi della critica sono, per lo più, intrisi di simpatia o antipatia, di affetto o di odio. A volte si tratta di simpatia o antipatia personale; a volte la simpatia o l'antipatia sono rivolte non al singolo artista, ma alla corrente alla quale si ritiene appartenga.
La simpatia altrui è sempre molto gradita, si gode, per qualche istante, di una profonda sensazione di benessere, ma sfumata questa sensazione gli interrogativi sulla qualità del proprio lavoro si ripresentano uguali a prima.
L'antipatia altrui dispiace, immediatamente si reagisce con altrettanta antipatia, il dubbio di essere inutili e il dubbio che siano "cose inutili" i malevoli giudici, si aggrovigliano e si finisce per detestare insieme sé stessi, la critica e la vita intera.
La critica rappresenta un'altra delusione, quando si avverte nella sua scrittura, solo un pretesto per la costruzione letteraria. Quando, già a distanza, se ne avverte l'odore, si estingue immediatamente la fede nel giudizio anche se tale giudizio si mostra adorno di eleganza. L'eleganza, le raffinatezze di stile del critico non sono affatto utili all'artista: può ammirarle, ma non sa che farsene.
Certo al critico non dovrebbe importare nulla delle reazioni dell'artista, se avesse la chiara coscienza di aver pensato e scritto giustamente. Ma i critici sono oggi fragili, nevrotici e ipersensibili. Temono di trovarsi da soli a dire il vero, oppure aspirano ad essere odiati come condimento piccante della loro esistenza. Desiderano ammantarsi di odio, come una luccicante divisa e l'aspirazione all'odio, sfoggiato come una civetteria sociale, così come la paura dell'odio, non può costituire un saldo basamento per la ricerca e l'affermazione del vero.
Una cosa che ritengo non dovrebbe mai fare un artista, è dolersi fuori di misura per le critiche negative o, più di frequente, per il silenzio che ricadono sulla sua opera. L'attribuire una smisurata importanza al riscontro dell'opera, rivela nell'artista una mancanza d'amore per l'opera e per sé stessi. Se l'artista ama veramente il suo lavoro, e non fa l'artista solo come mezzo di affermazione (sociale, economica... prestigio, orgoglio, vanità...), ciò che accade alla sua opera, la sua sorte, il favore o l'incomprensione che potrà incontrare, non hanno che una importanza effimera.
In verità l'artista non ha diritto di chiedere, per la sua opera, niente a nessuno. Quando ha sollecitato il gallerista perché gli paghi ciò che gli è dovuto, esigenza legittima e indispensabile, non gli restano altri compiti pratici nei riguardi delle sue opere. Può restarsene a casa, in riposo a pensare a sé stesso, o allo studio a pensare al prossimo lavoro. Invece è certamente dannoso pensare troppo alle opere già realizzate e che vanno, nel clamore o nel silenzio, per la loro strada. Ha avuto il grande piacere e privilegio di realizzarle e questo, in fondo, gli dovrebbe bastare per sempre.
Non ho inteso dire che all'artista i giudizi dei critici debbano essergli totalmente indifferenti: può essere utile - sempre che siano giudizi sinceri e non sollecitati o estorti o acquistati - metterli a confronto con il giudizio che lui stesso, nel profondo del suo spirito, ha della sua opera, e studiare di capire quanto del suo stesso giudizio sia dettato da un istintivo perdono per i suoi propri errori, quanto sia limpida conoscenza e quanto sia delirio e superbia. Ma raramente si riesce a guardare le proprie opere con distacco, raramente si riesce ad essere così saggi.

sabato 1 ottobre 2016

CHI L'HA VISTO?


Non c'è mai abbastanza nero per esprimere il violento contrasto che dilania questo mondo tra nascita e morte.
Pascal Quignard,L'incisore di Bruges,
Ed Frassinelli 2003, p. 68







Mi sono sempre chiesto se sia possibile limitarsi alle opere come se fossero state concepite da un puro spirito creativo, prescindendo quindi dall'essere umano carnale che le ha realizzate, ma fin ora anche questa domanda, tra le altre, resta, per me, senza una risposta definitiva.
Sconosciuto al pubblico, ostico ai critici, indifferente agli altri artisti, fuori dal mercato: sono i quattro muri che blindano l'attività di un incisore anche di vaglia.

Girolamo Russo è completamente estraneo ad ogni circuito artistico.
In rete si trovano un paio di lavori e una brevissima intervista annegata nel mare di you-tube, per il resto non ha mai allestito una personale, non c'è una pubblicazione che tratti del suo lavoro , non possiede un sito internet, non ha il profilo su Facebook, non fa parte di nessuna associazione… non si è sputtanato, come qualche giovane mezzatesta che mette personalmente in vendita su e-bay le proprie incisioni e 20,00 Euro.
Non lo incontrerete mai all'ora dell'aperitivo, più o meno rinforzato, nel ritrovo trendy, e se qualche volta va alle inaugurazioni degli "eventi cool" non è certo per farsi notare.
Farebbe non poca differenza se fosse presenzialista, vanitoso, presuntuoso, modaiolo, salottiero, ciarliero e fanfarone: ho tracciato la caricatura del profilo caratteriale dell'artista contemporaneo di successo, quanto alle loro opere… nella maggior parte dei casi l'opera è secondaria rispetto alle capacità di auto-promozione, nei casi restanti è del tutto irrilevante.
Ma se Russo fosse questo tipo d'artista non staremmo a parlarne, almeno non in questo stramaledettissimo Blog.



                       
La condizione di isolato, ha consentito a Girolamo Russo di vivere a distanza il travaglio dell'incisione.
L'ansia del nuovo, che è diventato il tarlo corrosivo dell'arte contemporanea, ha finito con l'accanirsi con particolare determinazione proprio nei confronti dell'autonomia, della più marcata peculiarità e della continuità dei mezzi espressivi storici, relegando l'incisione al ruolo di una tecnica obsoleta sopravvissuta solo per virtù di pochi.
Che l'incisione abbia dimostrato nel corso della sua storia straordinaria complessità di linguaggio oltre a innegabile fascino non è più questione decisiva.


Essendo un talento artistico naturale Girolamo Russo è capace di riprodurre fedelmente un dipinto del Seicento ed ha qualificate competenze nel campo del restauro, ma per vivere insegna ad adolescenti viziati con colleghi troppo presuntuosi per riconoscerne la qualità o anestetizzati all'indifferenza dalla routine scolastica (sommariamente è così, ma non escludo possibili eccezioni).
Tuttavia i motivi caratteriali non spiegano nulla perché conosco altri artisti schivi e appartati senza che la riservatezza abbia impedito loro di affermarsi artisticamente, comunque è vero che se la possibilità di farsi conoscere continuerà a dipendere solo da lui non avrà mai alcuna notorietà e se in questo non c'è alcun merito da parte dell'artista, c'è molto demerito da parte di quelle figure (critici, galleristi, curatori…) che dovrebbero promuovere l'arte.
In verità va detto che difficilmente si troverebbe qualcuno disposto a sopportarne gli sbalzi d'umore. Anch'io (forse) non ho alcun merito, poiché Russo mi era stato segnalato, ma posso rivendicare la mia determinazione nel cercare di contattarlo, scoprendo un atteggiamento decisamente indisponente: non risponde alle e-mail e al telefono sono solo «Ma... Non so… Ci devo pensare… Vedremo…». Inefficace anche il ricorso ad intermediari resisi gentilmente disponibili, ecco perché le opere sono prive di didascalie.
Non è che dar conto a questo detestabile blog sia obbligatorio, ma avendo imparato a distinguere anche i silenzi, so che la strafottenza di Russo non ha nulla del premeditato e finto disinteresse che dovrebbe attribuire a chi l'ostenta un aura di spocchiosa superiorità. Questo post  l'avrei pubblicato comunque (non fosse altro che per infantile dispetto) perché  (si capirà tra a breve) questa era l'ultima occasione di postarlo nel giorno in cui, per Russo Girolamo (detto Mimmo), ricorre il suo sessantaquattresimo genetliaco.


C'è nell'opera di questo "outsider" la più alta qualità attualmente in atto nell'ambito dei linguaggi astratti-informali, il fatto che i linguaggi astratti-informali abbiano ormai scarso appeal nel sistema dell'arte contemporanea è un altro discorso che non mi compete.
In un saggio del 2006 intitolato "Mercanti d'aura" i sociologi Dal Lago e Giordano indagano il rapporto tra artisti organici al sistema dell'arte contemporanea e outsider (folli, emarginati, carcerati…), ma ormai per risultare un outsider rispetto al sistema dell'arte contemporanea non occorre necessariamente un qualche patologia mentale.
Russo non rientra in nessuna delle casistiche che interessano la rivista "Raw Vision" che, come sottotitolo, recita "Outsider Art, Art Brut, Folk Art".
Per le mie conoscenze del mercato so bene che difficilmente una Sciura acquisterebbe un opera di Russo per il proprio salotto o boudoir (come direbbe Proust), ma il mercato non è fatto solo da Sciure nevrotiche e accollarsi il "disturbo" di conoscere gli artisti dovrebbe costituire l'impegno prioritario dei cosiddetti operatori culturali dell'arte se non avessero il culo incollato alla sedia della propria scrivania e non hanno mai scoperto nulla che non gli sia stato offerto o proposto o imposto da qualcun altro, tutti presi da altre faccende e (ne ho sempre più spesso conferma) del tutto privi di giudizio critico personale, incapaci di riconoscere autonomamente la qualità perché condizionati da opinioni e tendenze preconfezionate.
In verità qualcuno nelle passate edizioni del "Premio Acqui" aveva avuto occhio, ma i burattinai di quella baracca non sono andati oltre un premio minore, intascando comunque la tiratura e preferendo consolidare la loro rete amicale.


Vernice molle e acquatinta, 2008. 430 x 295

«Per ottenere gli effetti cromatici di questa stampa ho effettuato due passaggi di fondino a rullo rispettivamente per il rosso e per la gradazione di grigio, quindi ho applicato i frammenti in foglia d'oro e, in battuta conclusiva, ho stampato in nero la lastra incisa a vernice molle e acquatinta.
Se devo necessariamente trovare una relazione tra quello che emerge dall'opera e quello che sta al di fuori di essa, i riferimenti forse più rispondenti sembrano rimandare alle soffuse penombre dove si addensa il plasticismo strutturale dello spazio metafisico romanico, all'irradiazione musiva del misticismo bizantino che caratterizza lo spazio come entità luminosa.
Così alle atmosfere indefinite di luce radente si contrappone la luminescenza di frammenti dorati che insieme testimoniano il tentativo di far coesistere meditazione e contemplazione, mentre la campitura rossa si impone ed emotivamente disorienta.»
(G. R.)





So bene che circola il pregiudizio che gli elogi non portino bene perché alimentano la gelosia degli invidiosi. 'Affanculo gli invidiosi: fatevene una ragione, anche voi "maestrine" degli istituti privati, sedicenti europei o regionali, che spacciate per "ricerca" le impronte di tarlatana a ceramolle e che non potrete mai raggiungere la sublime qualità che in Russo si esprime con la stessa naturalezza con la quale gli uccelli cantano e volano o i pesci nuotano.
Alle incisioni di Russo bisogna abituarsi, come quando da un ambiente illuminato si passa in uno al buio. Il tempo che l'occhio si adatti all'oscurità e pian piano da quello che ci sembrava un uniforme buio vediamo affiorare rilievi e depressioni, faglie e corrugamenti.
I neri non sono mai piatti, ma se ne ricerca una continua variazione con successivi interventi che aggrediscono la lastra per schiarirla con abrasioni o scurirla con sovrapposizioni di segni e graniture di acquatinta.
Qualcosa che sa di lavorio oscuro sugli elementi per giungere dalla loro sorda opacità all'oro della definizione formale, alla luminosità della sintesi linguistica e così non è un caso che frammenti di foglia d'oro affiorino tra i neri di certe sue incisioni.
spazi inghiottiti in profondità caliginose, vellutate e indefinibili dalle quali emergono, agglomerati, scansioni di piani e volumi, strutture quasi architettoniche ma tutte sottoposte ad una sorta di prosciugamento figurativo che le riassorbe entro l'astrazione.
Un tempo Kholè non significava ira ma nero, se ira e nero erano un'unica parola i neri di Russo sono frutto della collera che è nella malinconia.
La sue lastre risultano incise come per un irrefrenabile impulso di collera, ma non si creda che le incisioni di Russo si realizzino di getto, sono frutto di un lungo susseguirsi di prove di stampa e interventi a togliere e ad aggiungere segni.
Secondo Aristotele di Stagira «Non è possibile all'uomo in collera frenare il suo furore come non è possibile al tuffatore che si lanciato dalla roccia bloccare il proprio slancio e non raggiungere l'acqua».


La pratica incisoria di Russo, per quanto sperimentale possa risultare, comporta pur sempre metodo, rigore e, comunque, un esercizio sorvegliatissimo, un sapere tecnico di fondata eredità storica. il suo "lavorio" appare come uno dei rari esempi di fedeltà all'esercizio incisorio riscontrabili nel vastissimo ed eterogeneo contesto di quel fenomeno artistico cui Russo si accosta a modo suo.


Questo post, proposto a Russo nel 2012, doveva essere strutturato in modo molto diverso e forse diverse sarebbero state anche queste mie grossolane considerazioni che spero risulteranno compensate dal testo critico che segue corredato da alcuni lavori recenti (per "inciso" gli unici ricevuti direttamente da Russo).
Evito di fare psicologismo spicciolo sul cambiamento riscontrabile nei recenti lavori di Russo, mi limito a rilevare che c'è poca incisione e troppa "Grafica", seppur "d'Arte", e, per i miei poveri gusti, consiglierei di lasciarla a quei vacui pretenziosi al soldo delle Accademie di Belle Arti.
Non so se il senso delle mie tante (troppe?) parole sarà compreso o frainteso, comunque sia, credo che nulla di tutto questo servirà da pungolo e, di certo, non sarò io l'uomo del destino. Celare la propria arte è facile, basta stare alla larga da critici, galleristi, concorsi e blogger..., ma rinunciarvi? E come si fa allora a vivere?


LO SGUARDO DELL'ANGELO
considerazioni sull'opera incisa di Girolamo Russo
Il primo incontro, a volte casuale, con una singola opera di un autore è sempre problematico. Specialmente quando il sentire dell'artista si discosta molto dalla natura la comprensione del linguaggio non risulta di immediata lettura, così solo conoscendo meglio l'autore e la sua opera è possibile apprezzarne la poetica. È questo il percorso che ho seguito incontrando per la prima volta un'incisione di Girolamo Russo esposta a Bagnacavallo nel 2003 in occasione della mostra di presentazione del quarto volume del Repertorio degli Incisori Italiani.
Azzardo subito la definizione di "Informale Strutturato" tentando con questo ossimoro di rendere la ricerca che guida le scelte affatto personali di Russo, non per ingabbiarne la poetica entro griglie predefinite di categorie estetiche e movimenti codificati o da codificare, ma per l'esigenza di ripercorrere il processo genetico dell'opera d'arte nel tentativo di non proporre solo una concezione mistica della forma.

Senza titolo, cera molle - acquatinta, 2013, cm 29,4 x 43

Il controllo compositivo dell'immagine è rigoroso, ma non è ottenuto tramite geometrie rintracciabili, bensì attraverso un equilibrio di "pesi" regolato da un senso della composizione che è proprio dell'artista, da quella percezione delle cose che non dipende da alcuno dei cinque sensi ordinari. Questo sesto senso, che Boileau chiama "l'influenza segreta", non trova alcuna precisa localizzazione, la sua funzione è quella di discernere l'armonia o, piuttosto, un'idea dell'armonia. Un equilibrio emozionale, si potrebbe parlare di uno spazio instabile e a un tempo immobile, tra il "non più" e il "non ancora", ritorna un altro ossimoro che è la figura retorica che meglio si addice alla stessa concezione della vita di Russo, il suo universo è soggetto a forze centrifughe, esplosive: le monadi si sono dissociate, decomposte, frantumate. In alcuni casi i segni si aggrumano e premono verso i bordi della lastra fino a deformarne i margini.

Senza titolo, tecnica mista 2015, cm 35,8 x 55,3
Il metodo operativo procede per continue aggiunte e sottrazioni. Interviene in modo febbrile, ricerca neri assoluti e vellutati che si dileguano in soffuse luminescenze o si contrappongono a folgoranti bagliori. La definizione dei segni è sempre nitida, niente "barbe" o aloni creati solo in fase di stampa. Con calibrate abrasioni attenua, sgrana o cancella i segni e le graniture, ogni volta la verifica della stampa per, eventualmente, ritornare a sovrapporre altri segni, altre graniture, altre morsure. Questo modo di procede parrebbe escludere la possibilità di operare con una tecnica così indiretta, invece Russo, che ha padronanza assoluta di tutte le tecniche pittoriche anche tradizionali, benché il suo mondo poetico vibra delle cadenze informali, sente profondamente l'incisione. Predilige le campiture di acquatinta a spruzzo e i segni di vernice molle, quando interviene direttamente sulla lastra con frese e spazzole metalliche i segni vengono ulteriormente rialzati sottoponendoli a morsure di cui tende sempre a forzare i limiti estremi: incidendo in profondità fino a rendere impossibile ogni altro intervento di ripensamento, o sfiorando appena la lastra come un impalpabile velo acido.
Nell'attuale dibattito sulla grafica d'arte la rispondenza al concetto di "originale", oltre al diretto intervento manuale da parte dell'artista autore dell'opera, ha posto anche il problema della coerenza del "linguaggio" con le caratteristiche specifiche del segno grafico. In verità alcuni hanno tentato di mettere in discussione anche il principio del diretto intervento manuale da parte dell'autore. La distinzione autore/esecutore è ammissibile in particolari ambiti, ma riferendomi allo strettissimo campo del disegno e dell'incisione non mi convinceranno mai che basti apporre la propria firma su una cosa realizzata da altri per assumerne la paternità e i termini in cui si faceva qualcosa di analogo nelle antiche botteghe andrebbero meglio chiariti prima di citarli ad esempio. Inoltre con assoluta chiarezza va affermato che spacciare una riproduzione fotografica per un'incisione originale è un falso senza attenuanti. Fatti salvi i principi etici, la questione del linguaggio rappresenta solo un falso problema: il linguaggio, o meglio i linguaggi sono in continuo cambiamento e in definitiva non c'è critico o cattedratico al mondo che possa dire a un artista cosa e come deve o non deve fare per esprimersi. Pertanto è inutile chiedersi a quale categoria appartenga il linguaggio espressivo di Russo in quanto egli opera un continuo e reciproco sconfinamento: elementi "grafici" si trovano nei suoi dipinti e soluzioni "pittoriche" si trovano delle sue opere grafiche, senza che in alcun modo si intacchi il giudizio di merito e la portata estetica dell'opera. Incurante del poter essere considerato "fuori moda" rispetto alle tendenze neofigurative e concettuali che sembrano spartirsi l'attuale ribalta dell'arte, Russo procede con assoluta coerenza e correttezza, non si concede scorciatoie, tutto è nella lastra: è artefice e artista.

Senza titolo, tecnica mista 2016, cm 37,3 x 56,3
L'artista è qualcosa di diverso dall'uomo comune, l'incisore, come il poeta e il funambolo, sono creature in bilico, che vivono nel rischio di una perdita immanente. È Russo stesso a dichiarare che la sua opera d'elezione è L'isola dei morti di Böcklin. A differenza del personaggio raffigurato da Böcklin di spalle ritto sulla barca che punta verso l'isola, Russo è già approdato sull'isola ed è lì che si guarda intorno: conosce cosa c'è dietro i cipressi e dentro i sepolcri che ha violato scavando come scava le sue lastre. Amplia la sua arte verso questo "lato oscuro" della realtà gettando, come nell'Eupalino di Valéry, uno sguardo dal mondo delle ombre sul mondo reale.
Ai segni delle composizioni di Russo si può adattare il concetto di Eidolon che indica un mondo di creature d'ombra estraniate dalla vita, figure che si muovono in una zona di transizione tra vita e morte, ma nulla rimane delle caratteristiche che ne determinarono la vita.
Senza titolo, tecnica mista 2016, cm 32,4 x 50,3
Il filologo classico Erwin Rohde, noto come amico di Nietzsche, vide nell'Eidolon, dal punto di vista etnopsicologico, l'alter ego: "L'uomo esiste secondo Omero due volte, nel suo aspetto percettibile e nella sua riproduzione invisibile (Eidolon), che diventa libera solo con la morte. Questo e nient'altro è la sua psiche".1 Un concetto simile, secondo il quale nell'essere umano vive un altro io come la sua "psiche", è il credo dei cosiddetti "popoli primitivi" di tutto il mondo. L'oscura religione ctonia si contrappone al luminoso mondo degli dei dell'olimpo. Ogni incisione di Girolamo Russo è un sacrificio rituale alle divinità ctonie, sotterranee, che dominano sulla morte e sulla vita, sul fiorire e sullo sfiorire.
Russo individua i limiti tra i due mondi, tra la memoria e l'oblio, tra il visibile e l'invisibile, ma allo stesso tempo suggerisce la possibilità di uno sconfinamento, rende possibile il passaggio attraverso lo specchio.
Grazie ai prodigi dell'angelo Heurtebise, protagonista dell'Orfeo di Cocteau, il poeta Orfeo può guardare Euridice morta attraverso lo specchio, raggiungerla e riportarla in vita. «Vi svelo il mistero dei misteri - dice Heurtebise - Gli specchi sono le porte attraverso le quali la morte va e viene. Non ditelo a nessuno. D'altronde guardatevi per tutta la vita in uno specchio e vedrete la Morte lavorare come le api in un alveare di vetro».
Il tema della porta è individuabile in alcune opere di Russo e forse non è un caso che per preparare una lastra da incidere occorre prima pulirla e lucidarla "a specchio".
La figura dell'angelo è evocata anche da Rilke, in una lettera scritta durante la stesura della IV Elegia afferma che la sua missione consiste nel raffigurare il mondo dal punto di vista di un angelo accecato, deve cioè guardare come chi vede nell'invisibile. Ma quest'angelo altri non è che il poeta stesso, perché è proprio dei poeti, degli antichi aedi, l'essere cieco. La cecità è, infatti, l'attributo della veggenza, i poeti "ciechi alla luce vedono l'invisibile".2 Non appaia paradossale questo fare riferimento alla cecità a proposito di un artista visivo perché la "visività" alla quale si fa riferimento non riguarda la rappresentazione, intesa come ripetizione, della realtà visibile, ma la capacità di rendere visibile l'invisibile: è il punto di vista degli angeli, è il punto di vista di Girolamo Russo.

Clemente Del Buono, Novembre 2004

NOTE
1. Erwin Rohde, Psiche. Culto dell'anima e fede nell'immortalità dei greci, 1898, p. 5.
2. J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i greci, Torino 1978, p. 95.